Sembra essere una fissazione che ha colto un gruppo di giuristi, di osservatori della vita collettiva, di cittadini. Chissà perché ne parlano con ossessiva ripetitività. Invece si tratta di un principio elementare, financo banale, considerato ovvio in tutti gli Stati di diritto che popolano il pianeta.
È del tutto ovvio che l’attaccante della squadra avversaria non possa anche essere l’arbitro della partita, ma neanche può esserlo l’attaccante della mia squadra. Se l’arbitro veste una maglia diversa da tutti gli altri non è perché non sia umano, non ami lo sport o, in cuor suo, non sia appassionato di questa o quella squadra, ma perché svolge un ruolo che non può essere collegato a nessuna delle due parti del campo.
Altrimenti la partita è truccata. E nella giustizia italiana, senza la separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e magistrati requirenti, la partita è truccata. Il libro ricostruisce minuziosamente le origini di questa aberrazione sottolineando, fin dal titolo, non solo che non c’è colleganza simile a quella italiana in nessun altro sistema giudiziario civile, ma che fra le due funzioni non può esistere neanche confidenza, comunanza di vita.
Non devono darsi del “tu”. Figuriamoci essere parte della stessa corporazione, avere lo stesso sindacato, votarsi l’un l’altro per eleggersi al Consiglio superiore della magistratura o alla guida del sindacato stesso. Il libro nasce anche con una circostanza fortunata: terminato e andato in stampa prima delle elezioni del settembre 2022, nel tempo che ci ha messo per arrivare in libreria il prefatore, Carlo Nordio, è divenuto ministro della Giustizia.
E nella prefazione Nordio scrive che quella colleganza rientra in un patologico elenco di disfunzioni, fra le quali: «l’obbligatorietà dell’azione penale, l’abuso della custodia cautelare, l’autoreferenzialità e irresponsabilità dei magistrati, via via fino alla chiusa obbligatoria della lentezza dei processi».
Come a dire che se non si rimuove quell’origine è escluso si rimuovano i guasti che ne derivano. Non si tratta, quindi, di una morbosa fissazione di taluni, ma della necessaria riforma senza la quale la giustizia resterà funzione e servizio di una corporazione chiusa e prepotente, anziché servizio ai cittadini e alla convivenza civile.