Si diventa leader, si prende la guida di un gruppo o di una collettività, non solo per capacità personali, pur necessarie, ma perché si riesce a interpretare un bisogno, a coprire un vuoto, a sentire da che parte soffia il vento della storia. Fuori da questo ci sono dei caporali che hanno preso la giacca del generale, due o tre taglie sopra la loro.
Il che porta a un altro aspetto, che da troppo tempo è dimenticato e arrogantemente negato: per governare, in una democrazia, serve avere la maggioranza parlamentare, quindi essere riusciti, alle elezioni, ad ottenere, da soli o con alleati, la maggioranza assoluta degli eletti, altrimenti il nuovo governo si dovrà negoziarlo anche con gli avversari di ieri. Come è puntualmente e ripetutamente accaduto.
La maggioranza parlamentare, però, è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Per governare occorre creare consenso attorno alle misure che si adottano. Governare non è comandare, semmai condurre.
È bastato che il Presidente del Consiglio dovesse tornare in conferenza stampa, a illustrare dei provvedimenti, per far subito risaltare una distanza inquietante dal modo in cui si esprimono le voci della campagna elettorale.
Non è una questione di titoli di studio o di frequentazioni internazionali, tutto sommato neanche solo (ma un po’ sì) di curriculum. La piaggeria ci provoca allergie e il qualunquismo demagogico peggio. È una questione di sostanza, di contenuti.
Le misure a sostegno di famiglie e imprese, per contrastare l’inflazione, non saranno mai abbastanza. Tanto che si dovrebbe anche piantarla con l’inseguimento delle promesse. Draghi, però, illustrando quel che è stato predisposto, ha sottolineato che quella spesa è resa possibile dalla crescita del pil e senza scostamento di bilancio.
Questo è il punto. Lì si trova il linguaggio della trasparenza (non faremo spese che sfondino il deficit, già alto), della concretezza (seno possibili perché cresciamo) e della serietà (non promettiamo quel che sappiamo di non potere mantenere). Girata pagina di giornale si trovano promesse di stipendi, pensioni, sovvenzioni, protezioni. La fiera dell’incredibile e dell’insostenibile.
La Banca centrale inglese annuncia la recessione (alla faccia di Brexit propellente) e il rialzo dei tassi, la crescita globale resta bassa, quella di diversi europei ritoccata al ribasso e la nostra al rialzo. È in questo che si vede la differenza e si misura la distanza. Ora che succede? Si vedono nubi.
Ci siamo già profusi in lodi verso Guido Crosetto, esponente di Fratelli d’Italia, per la sua proposta di un patto fra avversari. Poi è andato oltre: certe nostre avversità al Pnrr sono state un frutto di <<eccessiva pignoleria>>, mentre <<in autunno avremo bisogno dell’aiuto dell’Europa>> (si chiama sempre Unione europea).
Vero. Perché abbiamo un debito troppo alto e il rialzo dei tassi è un problema. Questo, però, andrebbe ricordato a tutti, perché sia a destra che a sinistra si chiedeva a Draghi lo scostamento di bilancio, che avrebbe peggiorato tutto subito.
Devono dirlo, sia quelli che sperano di governare in continuità sia quelli che sperano di trovare nell’agenda Draghi quel che non elaborano autonomamente (quel modo di governare è un metodo, l’agenda non si usa più). Torniamo a lodare Crosetto, ma nelle sue parole troviamo una terribile voragine: non siamo noi di Fratelli d’Italia che abbiamo cambiato idea sull’Ue, e l’Ue del Pnrr (semmai di NGEU) a non essere più <<quella che strangolò la Grecia>>.
La Grecia è stata salvata, noi stessi, come gli altri Paesi europei, ci abbiamo messo soldi, il debito insensato è stato spalmato nei decenni, con lo spread domato come quello italiano e con i greci che hanno votato a favore.
Il giochino di conservare i voti di quelli cui si raccontò che l’Ue era l’inferno contro la nostra sovranità e, al tempo stesso, convincere quelli che sanno essere il solo argine per conservare la sovranità, è misero. Per quello la distanza si vede. Grande.