Provvedimenti dal contenuto volutamente vago e impreciso, che lasciano una amplissima sfera di libertà nell’interpretazione che ne daranno amministratori e magistrati
Dalla legge-comando alla legge-simbolo. Forse i giuristi devono rivedere il modo in cui suddividono e classificano la legislazione. Il decreto sul rave party ha suscitato e sta suscitando proteste per il fatto che i suoi contenuti potrebbero in futuro prestarsi a interpretazioni lesive del diritto costituzionale di radunarsi e manifestare. Il Foglio ha subito indicato alcune evidenti somiglianze fra questo decreto e il disegno di legge Zan, bocciato dal Parlamento nella passata legislatura. In entrambi si intravvede una ispirazione panpenalista (anche se di segno politico opposto), la spinta ad allargare l’area dei comportamenti penalmente punibili.
Ma c’è forse anche un altro aspetto da considerare. I due provvedimenti in questione ma anche tanti altri decreti e tante altre leggi che non hanno attirato uguale attenzione da parte dell’opinione pubblica, hanno una cosa in comune. Non sono complessi di norme che, grazie alla loro chiarezza, al loro rigore e alla loro precisione, debbano essere applicati da un’amministrazione a cui restano margini di interpretazione ristretti e sul cui rispetto sia chiamata a vegliare la magistratura. No, sono leggi dal contenuto volutamente vago e impreciso, leggi che, a causa della loro fattura, lasciano una amplissima sfera di libertà nell’interpretazione che ne daranno amministratori e magistrati. I giuristi si mettono le mani nei capelli e parlano di analfabetismo giuridico dei nostri politici.
Ma a parte il fatto che nella schiacciante maggioranza, se non nella totalità di questi testi, ci mettono le mani i funzionari, il problema è che invocare una vera o presunta incapacità tecnico-giuridica non è sufficiente. E forse è persino sbagliato. Perché potrebbero essersi verificati cambiamenti strutturali, che, giunti a questo punto, rendono superflua la competenza giuridica. Anzi tale competenza, in molti casi, potrebbe essere addirittura un ingombro. Questo vale per molte leggi e, sicuramente, per tutte le leggi che hanno, dal punto di vista di chi le confeziona, un valore politico-identitario.
In questi casi ciò che conta della legge non è altro che il «messaggio» che si manda ai propri elettori nonché l’indirizzo di massima a cui si invitano amministratori e magistrati ad attenersi. Tanto, comunque, toccherà a loro, (amministratori e magistrati), e solo a loro, dare delle norme l’interpretazione che preferiscono e, eventualmente — ma è raro che ciò avvenga — sostituire rigore a sciatteria, chiarezza a confusione. Se la legge non è altro che un messaggio e un indirizzo politico di massima non c’è bisogno di altra competenza se non quella politica, la capacità di agire con efficacia entro l’arena politica.
Il cambiamento strutturale riguarda il declino relativo della politica rappresentativa e il contestuale rafforzamento della potenza delle magistrature e dei vertici dell’amministrazione civile. È un processo in atto da decenni, da quando entrò in crisi il sistema dei partiti che aveva dominato la Repubblica dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ai primi anni Novanta.
Da allora, ai partiti con il fortissimo radicamento sociale di un tempo si sono sostituite formazioni politiche molto più fragili al servizio dei rispettivi leader. Inoltre, causa la forte eterogeneità delle coalizioni di governo , non è mai stato possibile dare vita a esecutivi forti e stabili. La debolezza della politica, mentre, dal lato dell’elettorato, generava frustrazione, elevata mobilità elettorale, alto astensionismo e movimenti di protesta, dal lato dei rapporti fra governi, amministrazione e magistrature, consolidava una tendenza i cui inizi risalgono alla rivoluzione giudiziaria dei primi anni Novanta: lo spostamento del baricentro del potere dalla politica rappresentativa alle istituzioni amministrative e giudiziarie.
Oggi, si dice (forse troppo frettolosamente) che si è ricostituito un potere politico forte con la vittoria delle destre. Per giunta, lo stato comatoso dell’opposizione lascia pensare che la destra potrebbe governare più o meno indisturbata per più di una legislatura. Vedremo. Ma resta comunque il fatto che anche una leader con la forza e le capacità di Giorgia Meloni si trova alla testa di una coalizione di governo sgangherata. Come tutte le precedenti coalizioni di governo.
C’è da dubitare che possa riuscire a ribaltare i rapporti di forza fra politica rappresentativa e Stato burocratico-giudiziario. E, anzi, potrebbe contribuire ad aggravare il problema. Più leggi-simbolo vengono accatastate, più libertà di interpretazione si assegna a amministratori e magistrati e più si espande lo spazio della politica «burocratico-giudiziaria» (l’autonoma attività degli apparati dello Stato) a scapito dello spazio di cui dispone la politica rappresentativa.
Al momento, ciò che chiamiamo democrazia, ossia la politica rappresentativa, è ancora insostituibile. Fornisce la necessaria legittimazione, e le necessarie coperture, senza le quali lo Stato burocratico-giudiziario non potrebbe reggersi in piedi. La democrazia rappresentativa è ancora l’unico gioco politico ufficialmente possibile, l’unico che porti stampato il bollino della legalità (costituzionale). Legalità e legittimità politica non sono sinonimi e possono non coincidere ma in questo caso sì.
Al momento, e nonostante tutti gli sfilacciamenti, anche gravi, che si verificano praticamente ovunque, la democrazia rappresentativa gode ancora di forti protezioni nel mondo occidentale. Basti pensare al club europeo. Non se ne può fare parte se non si è una democrazia. L’Ungheria che ne ha indebolito alcuni istituti, è diventata un sorvegliato speciale. Anche la Polonia era nella stessa condizione ma poi la guerra in Ucraina, la sua posizione anti-russa e la sua collocazione strategica, hanno messo momentaneamente la sordina alle proteste per certe sue scelte istituzionali di segno illiberale.
In ogni caso, la democrazia, in Occidente, gode ancora di forti sostegni interni e di una rete di ancoraggi internazionali. Ma se quella rete si indebolisse troppo, che accadrebbe a un Paese come il nostro? Al momento, e si spera anche in futuro, lo Stato burocratico-giudiziario non può disfarsi della politica rappresentativa. Non può farlo perché ha cento teste e non una soltanto. E non può farlo perché non dispone di una fonte di legittimazione autonoma. Ma se la crisi della democrazia in Occidente dovesse aggravarsi, un giorno le cose potrebbero cambiare. Chi continua ad apprezzare la democrazia nell’unica forma possibile, quella rappresentativa, spera che quel giorno non arrivi mai.