Il 16 novembre 1938 nasceva a Brooklin Robert Nozick, tra i filosofi più brillanti del XX secolo. Il ritratto di Corrado Ocone, da Profili riformisti (Rubbettino, 2009)
(…) Negli ultimi decenni, a parte il caso eccentrico e bizzarro degli anarchici di destra, i cosiddetti anarco-capitalisti, c’è stato un pensatore che ha portato a profonda consapevolezza teorica il nucleo del pensiero anarchico. E che, pur non essendosi impegnato politicamente in prima persona, sarà sicuramente di aiuto per tutti coloro che oggi o domani vorranno elaborare una più o meno compiuta teoria e prassi dell’anarchismo. E di che pensatore si tratta! Un filosofo a tutto tondo, un autore geniale e originale, un campione del pensiero speculativo molto più di quel John Rawls di cui la sua teoria è in qualche modo il contraltare polemico e il polo dialettico. Robert Nozick (Brooklin 1938 – New York 2002), professore a Princeton e Harvard, di lui si tratta. Pur rimanendo in area liberal, ha infatti elaborato una teoria che critica lo Stato e soprattutto il suo intervento in economia, laddove il teorico della giustizia allo Stato assegnava come è noto importanti funzioni redistributive delle opportunità volte a rendere quanto più concreto possibile l’ideale della “libertà eguale”.
L’opera che ha imposto Nozick nel dibattito filosofo e che ancora oggi rimane la sua più conosciuta e forse il suo capolavoro è Anarchia, Stato, Utopia del 1974 (edizione italiana, Le Monnier, Firenze 1981). L’impostazione del discorso nozickiano è tipicamente giusnaturalistica: l’individuo è portatore assoluto di diritti, che sono un valore in sé, anzi il valore assoluto. Ovviamente gli individui non vivono isolati, ma in società. Il problema sociale è proprio quello di garantire a ognuno i suoi diritti, di evitare che i diritti di uno possano configgere o annullare i diritti degli altri. Da una parte perciò sembrerebbe che lo Stato non possa non esistere, avendo certamente il solo compito negativo di garantire, per dirla kantianamente, la libera coesistenza degli arbitri individuali. Ma d’altro canto, esso, osserva Nozick, è un problema in sé dovendo svolgere il suo ruolo, fosse pure quello negativo di tutela, esso deve comunque intervenire e cioè, detto fuor di parafrasi, deve limitare in qualche modo lo spazio di libertà, e quindi i diritti inalienabili, del singolo.
Come uscire dall’impasse? Qui il discorso di Nozick, come si dice in gergo filosofico, da ontogenetico si fa filogenetico. Ciò significa che, secondo il nostro, una forma di Stato, “minimo” o “ultraminimo”, è in qualche modo un prodotto “naturale” della storia umana, cioè nasce spontaneamente, in seguito a una esigenza diffusa e non in base a un contratto stipulato (Nozick non è affatto un contrattualista) o a forme più o meno forti di pianificazione o ingegneria sociale. Gli individui hanno necessità di garantirsi a vicenda contro la forza, il furto e la frode e sull’esecuzione dei contratti e degli accordi interpersonali. Hanno soprattutto necessità di proteggere quelle proprietà private di legittimo possesso che sono come una prosecuzione di loro stessi, parte integrante della loro identità. Essi perciò danno spontaneamente vita ad associazioni di protezione prima, e un’associazione protettiva dominante poi, a uno Stato ultraminimo infine.
Dallo Stato ultraminimo, che avoca a sé l’uso della forza e annuncia pubblicamente che combatterà chi scenderà sul suo terreno, si distingue lo Stato minimo, la cui funzione universalistica, diciamo così, viene sancita dall’imposizione di una tassazione generalizzata per permettere agli abitanti di un determinato luogo di godere dei suoi benefici. Ogni compito o funzione diversi da quelli citati che lo Stato possa avocare a sé, casomai pensando di “costruirli” razionalmente a tavolino, sono da rigettare in quanto lesivi in maniera più o meno forte di quei diritti individuali fondamentali che sono propri dell’io e che anzi propriamente sono l’io (individuano la sua identità personale).
L’anarchismo moderato di Nozick assume l’individuo come fine in sé, valore assoluto, e mai mezzo per alcunché. E batte perciò in breccia ogni forma, più o meno velata, di paternalismo e assistenzialismo. La vita è di ciascuno e ciascuno ne è responsabile e la costruisce come meglio crede. Lo Stato non può far nulla per costringere altri o me stesso a fare qualcosa per il mio bene, di cui io solo sono e devo essere giudice ed esecutore. “Lo Stato non può usare il suo apparato coercitivo — scrive efficacemente Nozick — allo scopo di far sì che alcuni cittadini ne aiutino altri, o per proibire alla gente attività per il sua proprio bene e per la sua propria protezione”.
La società è una finzione e un’entità astratta, come lo Stato, in quanto a esistere sono solo i particolari e fra loro diversissimi individui singoli. Non esiste perciò né un bene sociale né un interesse generale che soverchi le particolarità individuale. Lo Stato non può obbligarmi a fare sacrifici per gli altri. La solidarietà può essere al massimo un fine dei singoli. Ogni individuo deve essere messo in condizione di costruire autonomamente il suo progetto di vita, di fare ciò che più gli aggrada e di seguire gli obiettivi in cui ripone la propria felicità. Una condizione di benessere che sarà il massimo per lui ma non per altri, quasi a voler suggellare la multiforme e multicolore, non riducibile, varietà della vita. Lo Stato ottimo non è contenutisticamente definibile, ma è quello che formalmente garantisce questa sana e umana anarchia dagli spiriti, un concetto, una tendenza da perseguire, e in questo preciso senso un’utopia, uno spazio che vive nella realtà della tensione piuttosto che in quella della realizzazione.
“Lo Stato minimo —scrive Nozick in conclusione della sua opera — ci tratta come individui inviolati, che non possono essere usati dagli altri in certe maniere come mezzi o arnesi o strumenti o risorse; ci tratta come persone che hanno dei diritti individuali con tutta la dignità che ne proviene. Trattandoci con rispetto perché rispetta i nostri diritti, ci permette, individualmente o con chi meglio crediamo, di scegliere la nostra vita e di conseguire i nostri fini e l’idea che abbiamo di noi stessi, nel limite delle nostre capacità; aiutati dalla cooperazione volontaria di altri individui investiti della stessa dignità. Come potrebbe uno Stato o un gruppo di individui osare far di più? O di meno?”. Solitaire, solitaire, potremmo dire, parafrasando Camus.
E così Sebastiano Maffettone sintetizza il senso dell’opera nozickiana: “Un libro libertario, e non semplicemente liberista. Il che vuol dire che Nozick, anche quando sostiene il Mercato, lo fa per difendere i diritti individuali, al contrario — come diceva lui — di molta destra americana che apprezza il ruolo del Mercato ma spesso disprezza, per esempio, i diritti dei gay e delle minoranze”. E, possiamo aggiungere, degli animali: Nozick è stato sempre simpatetico con le teorie animaliste del suo collega di Princeton, Peter Singer.
Che cosa dire della concezione politica nozickiana, così come emerge da Anarchia, Stato, Utopia? Probabilmente che ciò che ne fa la sua forza, l’individualismo, ne segna anche i suoi limiti. La forza è quella della coerenza e della chiarezza e linearità logica a concettuale: assunto l’individuo come valore in sé, come il valore assoluto, ne discende con coerenza proprio tutto ciò che Nozick ne fa discendere. II fatto è che il concetto di individuo è assunto in senso rigido, con una significatività che poco si confà alla consapevolezza filosofica contemporanea. L’individuo nozickiano, come quello del liberalismo classico degli albori della modernità, è un’entità metafisica, chiusa, compatta, stabile, definitiva e inconcussa: e appunto individuo, è indivisibile. L’opposto speculare, e quindi logicamente solidale, di quell’insieme tondo e ugualmente compatto che chiamiamo Stato.
Siamo per lo Stato o per l’individuo e il mercato? Statalisti o liberisti? Così recita l’irriflessa vulgata politica che ci domina. Tutt’altra cosa è invece, nella realtà, l’individualità (e quindi l’identità personale). L’individuo è un precario centro di equilibrio di forze contrastanti che spesso lo sovrastano e che agiscono a monte e a valle. La sua identità è in progresso, mai stabile, sempre sul punto di compromettersi e contraddirsi: l’io non è ma si costruisce, giorno per giorno e senza garanzie. E la stessa società è dopo ma è anche prima dell’individuo, in un rapporto dialettico di mutua dipendenza: l’individuo è anche, seppur non esclusivamente, un individuo sociale. Esso è sì il fine e il valore assoluto, ma non può essere ingenuamente preso e giudicato. Un liberalismo anche libertario di nuovo conio non può non tener conto di tutto ciò.
Ma Nozick, si diceva, è stato troppo filosofo per non rendersene conto. Non è forse un caso che nelle opere successive, suggestive e profonde, egli abbia abbandonato la filosofia politica per occuparsi di filosofia tout court: belle grandi questioni del pensiero e della teoresi. Quasi a voler delucidarsi su quei concetti di fondo — vita, morte, Dio, individuo, libertà, natura, coscienza…] — che, se correttamente compresi, danno un senso diverso e più profondo alla stessa filosofia politica (Spiegazioni filosofiche, Il Saggiatore, Milano 1987; La natura della razionalità, Feltrinelli, Milano 1995). Accanto all’interesse speculativo, l’interesse pratico è continuato nella forma di una riflessione morale sull’individualità: l’individuo, lungi dall’essere assunto in una forma irriflessa, viene ora afferrato in una sorta di comprensione dall’interno, di autoesame che con una sorta di fenomenologia analitica esistenziale (senza ovviamente i risvolti decadentistici presenti in un Heidegger) autodefinisce l’io attraverso i momenti salienti della sua autobiografia: l’amicizia, l’amore, il sesso, la felicita, il gioco, il lusso, la fama, l’ambizione, il potere (cfr. La vita pensata, 1989).
Indipendentemente dalle risposte date ai classici plessi tematici della tradizione filosofica, Nozick si è reso conto che il tema centrale che andava aggredito, il concetto che la tarda modernità ha messo in crisi, era quello di oggettività. Nemmeno politicamente può infatti costruirsi nulla di serio e duraturo se non si ha una qualche forma di certezza, se non ci si convince che lì, fuori di noi, non ci sono solo i nostri fantasmi.
Al tema dell’oggettività, Nozick ha perciò dedicato l’ultimo, ambizioso libro: Invarianze. La struttura del mondo oggettivo (2001; edizione italiana: Fazi, Roma 2003). L’oggettività viene qui assunta non in un senso ontologico, ma funzionale: non come ciò che è, ma come ciò che rimane permanente, invariante, a una serie di condizioni. Nella consapevolezza che tutto può sempre cambiare e che la vita come la ricerca non si fissa mai in un punto. Invarianze è un vero inno alla filosofia, che si chiude con queste parole che sono una sorta di testamento lasciatoci: “Così possiamo inoltre sperare — scrive — che, se anche non possiamo raffigurarci i filosofi del futuro […] essi saranno in grado di guardare indietro fino a noi e di riconoscerci come affini. La filosofia ha la sua origine nella meraviglia. E non ha mai fine.”