La scienza progredisce tramite la più severa competizione tra idee; la democrazia è competizione tra proposte politiche; la libera economia è competizione di merci e servizi sul mercato. Competizione da cum-petere, che vuol dire: cercare insieme, in modo agonistico, la soluzione migliore. Hayek: «Così come per la sfera intellettuale, anche in quella materiale la concorrenza è il mezzo più efficace per scoprire il modo migliore di raggiungere i fini umani. Solo là dove sia possibile sperimentare un gran numero di modi diversi di fare le cose si otterrà una varietà di esperienze, di conoscenze e di capacità individuali tali da consentire, attraverso la selezione ininterrotta delle più efficaci tra queste, un miglioramento costante». È in questo senso che la competizione si configura come un alto processo di collaborazione.
E va da sé che chi aborrisce la competizione, deve avere chiaro il suo rapido ritorno nella vita della tribù o all’interno della caverna. La competizione, infatti, è il terrore di tutti i conservatori conservatori di destra, di centro e di sinistra. Ha scritto Hayek, nel saggio Perché non sono un conservatore, che «uno dei tratti fondamentali dell’atteggiamento conservatore è il timore del cambiamento». Ostile ai cambiamenti, il conservatore avverte d’istinto che sono le nuove idee a provocare siffatti cambiamenti, e di conseguenza le avversa. «Diversamente dal liberalismo, caratterizzato dalla fondamentale credenza nel potere a lungo termine delle idee, il conservatorismo è vincolato dal bagaglio di idee ereditate in un dato momento».
E siccome il conservatore non crede veramente nel potere della discussione, la sua ultima risorsa, ad avviso di Hayek, consiste, generalmente, nella rivendicazione di una superiore saggezza basata su una qualità superiore che egli si arroga da sé. E le cose non si fermano qui. La sfiducia del conservatore nei confronti del nuovo e dell’ignoto, nei confronti di idee che fanno evolvere la nostra civiltà e che non rispettano nessun confine, è all’origine della sua ostilità verso l’internazionalismo e della sua propensione a un nazionalismo esasperato.
Da tutto ciò, dunque, ben si comprendono le ragioni per cui il liberale non è un conservatore. Il conservatore si aggrappa all’esistente e teme il nuovo; il liberale, pur non considerando tutti gli sviluppi un progresso, vede però nel progresso della ricerca una fondamentale finalità degli sforzi umani e si aspetta dalla conoscenza una soluzione graduale di tanti problemi che ci affliggono. Il conservatore si affida alla vigilanza di autorità non vincolate da norme rigide al fine di bloccare le novità; il liberale difende invece «la concorrenza come un procedimento per scoprire fatti che, senza ricorrere a essa, nessuno conoscerebbe, o almeno non utilizzerebbe», e sa che le società che contano sulla concorrenza hanno raggiunto i loro scopi meglio di altre. Diversamente dal conservatore che si affida a uomini che reputa superiori, il liberale è consapevole non solo della nostra fallibilità ma anche della nostra ignoranza e di conseguenza non va alla ricerca dell’unto del signore che deve comandare, cerca piuttosto di individuare e costruire le regole (o istituzioni) che permettono di controllare chi comanda. Il conservatore non teme di allearsi con il socialista contro le proposte liberali; il liberale non è conservatore, ma avversa anche il costruttivismo di quei socialisti e il razionalismo di origine illuministica di quei liberali per i quali la genesi e tutti i mutamenti di tutte le istituzioni e di intere società sarebbero dovuti a piani e a progetti intenzionali.
Il conservatore assume atteggiamenti antidemocratici; il liberale, invece, si è schierato e si schiera a difesa della tolleranza. E qui una precisazione di grande rilievo: la tolleranza non equivale, per il liberale, ad assenza di fede religiosa. Scrive Hayek: «A differenza del razionalismo della Rivoluzione francese, il vero liberalismo non ha niente contro la religione, e io non posso che deplorare l’anticlericalismo militante ed essenzialmente illiberale che ha animato tanta parte del liberalismo continentale del XIX secolo. Quel che in ciò distingue il liberale dal conservatore è che, per quanto profondi siano i suoi convincimenti spirituali, egli non si riterrà mai autorizzato a imporli ad altri e, per lui, lo spirituale e il temporale sono sfere diverse da non confondere».
Una ulteriore considerazione: la presenza dello Stato dove necessario, la concorrenza ovunque possibile. E ciò, se non altro, per la ragione che soltanto tramite la competizione può imporsi una sana meritocrazia contro l’iniqua e degradante regola della corte consistente in genuflessioni e privilegi. E se è innegabile che la verità non sopporta padroni, ne segue che, tra i tanti in livrea, i più indegni sono quei cortigiani sempre pronti e indaffarati a nascondere o a tacere su ogni turpitudine: hanno il bavaglio spalmato di miele.
Luigi Einaudi: «In un regime economico di concorrenza, esistente in una società di governo rappresentativo, chi ha più filo fa più tela. Non occorre essere grossi; basta essere bravi e valenti. Chi sa fabbricare scarpe adatte al piede del cliente, ne venderà molte, chi produce vino buono e serbevole non patirà difficoltà di vendita; e, salvo casi eccezionali e passeggeri, non patirà la crisi, perché troverà sempre colui che è disposto a comprare la roba sua ad un prezzo che compensi il costo e ciò perché, essendo egli competente e valente, i suoi costi sono minori di quelli dei produttori meno competenti e bravi».
Tutto questo in una società che abbia abbracciato il principio di concorrenza, e non solo in ambito economico ma anche e prima di tutto nel mondo dell’informazione e in quello del sistema scolastico. Ben diversamente vanno invece le cose «in un regime che tutti indirizza dall’alto dove occorre continuamente ottenere permessi, licenze, autorizzazioni, assegnazioni di materie prime, di combustibile, di operai, di partecipazioni a vendite di questo e di quel mercato, d’importazione e d’esportazione. Il motto d’ordine diventa disciplina; il che vuol dire che nessun agricoltore, nessun industriale, nessun commerciante, può fare un passo, può lavorare, comprare o vendere senza il beneplacito, il permesso, la scartoffia riempita da qualcuno che scrive carte e mette firme in qualche ufficio governativo, corporativo, sindacale. Ma bisogna poter giungere fino al signore che mette le firme ed ha diritto di vita e di morte sulle sostanze e sui redditi dei produttori». In un sistema del genere, fa presente Einaudi, «la corruzione è fatale».
Difatti, «se come è naturale, il capo supremo non può attendere a tutto e deve delegare le sue facoltà a qualche migliaia di sottocapi e gerarchi, chi potrà impedire che costoro abusino della loro situazione? Un industriale, al quale un permesso, un’assegnazione può fruttare centomila lire di guadagno, si asterrà sempre dall’offrire una partecipazione del dieci o del venti o più per cento a chi ha il potere di dare o rifiutare quel permesso? In molti casi il funzionario è integerrimo e preferisce vivere con duemila o tremila lire al mese, lui o la famiglia, piuttosto che ricevere mance per compiere cose che attengono ai suoi doveri d’ufficio. Ma sarà sempre così?».
L’amara risposta a questa domanda di Einaudi la conosciamo tutti.
Dario Antiseri, Il Giornale del 18 agosto 2016