Piero Ostellino: Domenico Ocone ricorda l’uomo, il giornalista e il pensatore liberale scomparso qualche mese fa. Dalla rivista Libro Aperto
Mi accingo a scrivere dell’illustre giornalista, recentemente scomparso, animato da sentimenti diversi: ammirazione incondizionata, timore reverenziale e nostalgia, tutti comunque convergenti e tra loro complementari.
Mi auguro che essi mi aiutino a tracciare il mio profilo dell’uomo senza che prevalga quello che è il dolore naturale per la sua uscita di scena.
Il suo pensiero liberale
Ho avuto il privilegio di conoscerlo personalmente all’inizio degli anni ’80, quando ero redattore capo del periodico Quale Impresa, organo ufficiale del gruppo giovani di Confindustria di cui facevo parte come consigliere nazionale. Erano gli anni in cui il gruppo era presieduto da Luigi Abete, successore di Pietro Pozzoli che, a sua volta, aveva dato il cambio a Renato Altissimo; Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia, era presidente del sodalizio imprenditoriale ed era succeduto a Giovanni Agnelli.
In quegli anni anche tutta la dirigenza di Confindustria era di estrazione dal mondo imprenditoriale.
Ricordo con nostalgia quando Ostellino, che all’epoca già da più parti era indicato come uno dei direttori in fieri del Corriere della Sera, anzi il più adatto, ci onorava della sua collaborazione, venendo addirittura lui in redazione, nella sede di Confindustra, in viale dell’Astronomia.
Le sue erano lezioni di liberalismo, non semplici conversazioni o interviste; con serenità confesso di essermi trovato più volte nella necessità di chiedergli di ripetere quanto esposto in maniera più semplice e tanto con mio grande imbarazzo!
Ma non ero il solo nella redazione ad avere questa sensazione e perciò, se possibile, in qualche modo mi sentivo sollevato: il maestro, già allora, era una spanna sopra quello che la sua categoria in quel tempo aveva in scuderia.
La sua concezione del pensiero liberale era quanto di più vicino all’origine dello stesso che venisse espresso in quel tempo: i pensatori liberali inglesi del secolo precedente, soprattutto Adam Smith e David Hume, ricorrevano e apparivano attualissimi nelle sue disquisizioni in redazione e non solo.
L’uomo era di una affabilità, unita ad una spiccata signorilità, tutta sabauda ancien regime che metteva a proprio agio chiunque interloquisse con lui; a ciò aggiungeva una particolare e fine ironia e anche autoironia che ne facevano una figura fuori dal contesto dei pensatori liberi e non solo di quella stagione non semplice del mondo occidentale, in specie in Europa ed in Italia.
Fu lui a portare nella nostra redazione Ralph Dahrendorf che, come lui, brillava per democraticità e semplicità, pur nell’ austerità e nel rigore del suo comportamento.
Un ricordo particolarmente vivo: un giovedì pomeriggio, quando ogni due settimane era convocato il comitato di redazione, arrivai con notevole ritardo ad un appuntamento con Dahrendolf. Non c’erano ancora i telefoni portatili e non avevo potuto avvisare la segreteria della circostanza. Mi scusai con lui che rispose con serenità: “non deve scusarsi, lei è un imprenditore, quindi la massima espressione dell’uomo libero e può capitare che sia in ritardo!”.
Questa sua fu una sottolineatura, semmai ce ne fosse stato bisogno, del suo rispetto per la libertà altrui: era presente anche Ostellino; di quest’ultimo, uno dei fili conduttori del pensiero che maggiormente mi colpiva e che ha lasciato segni indelebili su di me era la rielaborazione in chiave moderna di uno dei principi cardine del diritto romano, precisamente che il diritto di una persona finisce dove inizia quello di un’altra. Era questa la sua trasposizione laica ed ampliata in positivo del principio cattolico: “non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te.”
Per quanto riguarda la sua visione dell’economia, nazionale ed internazionale, si riferiva direttamente al pensiero del professor Luigi Einaudi: mal tollerava l’intervento pubblico in essa, affermando, talvolta in maniera drastica, che in più situazioni esso si concretava in una distruzione di ricchezza, privata e pubblica.
Ostellino si riferiva in particolare al distorto funzionamento del sistema previdenziale e di quello assistenziale, che talvolta erano utilizzati dalla mano pubblica in maniera non lineare. Per lui la loro applicazione doveva rimanere contenuta nell’ambito più rigoroso e autentico del significato di questi termini.
E quanta affinità in questa visione con il pensiero di Milton Friedman, del quale proprio attualmente vengono riprese le considerazioni per quanto riguarda il cosiddetto reddito di cittadinanza e le ipotesi assistenziali ad esso assimilabili.
A tale riguardo è importante sottolineare che, a metà anni sessanta, quando già covava il fermento ideologico che portò in tutto il mondo occidentale uno degli sconvolgimenti sociali più violenti, per altro connotato da forte emotività di tipo giacobino – il non dimenticato ’68 – il nostro fondò, insieme ad altre forti personalità liberali del tempo, quali Valerio Zanone e Giovanna Zincone, il centro di Documentazione e Studi Luigi Einaudi: la pubblicazione ufficiale dello stesso, ancora oggi regolarmente edita, Biblioteca delle Libertà, fu anche per noi giovani, all’inizio del nostro percorso di imprenditori, il faro di riferimento nel marasma e nella confusione che dilagarono in quel periodo.
Ostellino aveva avuto, alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, maestri del calibro di Norberto Bobbio e Alessandro Passarin D’Entreves, dei quali mutuò ed elaborò in chiave liberal il pensiero.
Erano quelli i tempi in cui la città di Torino stava vivendo il completamento di uno dei fenomeni più importanti di migrazione ed inurbamento che la nostra Nazione abbia mai conosciuto.
La miscela esplosiva che andò formandosi, alla fine deflagrò in questo coacervo sociale sempre più teso: furono gli anni dell’assedio da parte di una massa quale forse mai prima si era concentrata davanti ai cancelli della FIAT della gestione Romiti con l’avallo dello stesso Enrico Berlinguer, segretario del PCI in quel tempo.
Gli anni al Corriere della Sera
Intanto in quegli stessi anni il Corriere della Sera era diventato la sua seconda dimora e proprio allora stava vivendo la più inopportuna delle derive gauchiste sotto la proprietà, non proprio distaccata dalla linea editoriale, di Giulia Maria Mozzoni Crespi, “la contessa rossa”. La stessa era stata amica di Giangiacomo Feltrinelli, morto mentre tentava di far saltare con l’espolosivo un traliccio dell’alta tenzione a Segrate. E tant’è: questo era lo spirito del tempo.
Intanto io e il mio gruppo di giovani imprenditori stavamo diventando via via sempre meno giovani e più imprenditori e, la maggior parte di noi trovò collocazione tra i senior di Confindustria. Questa evoluzione non impedì, a me come ad altri, di seguire i pensatori con cui avevamo collaborato, tra gli altri Orazio Maria Petracca.
Ritornando ad Ostellino e ai suoi colleghi anche di pensiero, essi si trovarono, nel periodo dell’ingerenza della Mozzoni Crespi e sotto la direzione del Corriere di Albero Cavallai, ad essere messi nell’angolo, con loro Renato Mieli.
E pensare che di lì a poco avrebbe iniziato a collaborare con quel giornale anche Leonardo Sciascia, persona non certo facile ad essere inquadrato e ridotto a bisbigliare le proprie idee e convinzioni!
Un altro degli atteggiamenti che diventò sempre più caratterizzante del personaggio fu la sua grande – ed aggiungo ben motivata – riserva nei confronti dell’operato della Magistratura e della sempre più marcata azione di condizionamento da parte della stessa dell’attività politica del nostro paese. All’epoca dei fatti di Mani Pulite, da una tribuna completamente opposta alla sua, lo stesso concetto veniva affermato, ribadito e difeso da Giorgio Bocca, piemontese come lui.
Le conseguenze di quanto cominciò ad accadere in quel periodo buio sono ancora oggi attuali e palesemente constatabili, senza ombre di dubbio e facilmente.
Gli ultimi anni
All’inizio del terzo millennio Ostellino, pur mantenendo un forte legame con il Corriere, spostò la sua collaborazione al giornale di Torino, ritornando così alle sue radici culturali, anche se incominciò a trascorrere con la famiglia lunghi periodi di ritiro in Provenza. Con il Corriere, suo grande amore, continuò a collaborare con una rubrica, “Il Dubbio” che si distingueva sempre più per essere il distillato accademico e in versione liberal degli accadimenti quotidiani in Italia e nel mondo.
Non sostenne mai ad oltranza la perfezione e quindi l’affermazione che non fosse necessaria una rielaborazione della nostra Carta Costituzionale, anzi: ne indicò più volte i punti non chiari o quantomeno, a suo parere, mal interpretati. Asserì più volte che era necessario rivederla, con grande attenzione e in tempi non biblici.
Ancora la scorsa estate, agli inizi di settembre, avevo provato a mettermi in contatto con lui attraverso i canali che abitualmente usavo: la risposta di chi gli collaborava fu sempre che, appena fosse stato possibile, avrebbero preso contatti con me. Non sono stato più chiamato.
Piero Ostellino che ho conosciuto tanti anni fa si sarebbe sicuramente fatto vivo, appena gli fosse risultato possibile. Capii allora che c’era qualcosa di serio che non andava nella sua salute e pensai quindi che era difficile per lui interloquire con chicchessia e che lo faceva se proprio non poteva farne a meno. Erano le avvisaglie dell’approssimarsi della sua fine, purtroppo!
Ma che peccato, come ebbe a dire Indro Montanelli, suo mentore indiscusso, nell’articolo di commiato alla morte della regina Maria Josè di cui era rimasto amico fino alla fine. Di quel grande toscano e di Alberto Ronchey, altra grande firma, ho sempre pensato che Piero Ostellino avesse raccolto il testimone del loro tratto e connotato la sua professionalità; come non sempre accade, quest’ultimo ha saputo mantenere, fino alla fine, dritta la rotta della barca del pensiero liberal tracciata dai due illustri predecessori, adattandola ai tempi e senza mai ritornare sui suoi passi.
Chi, come me, ha rivolto per l’intera durata della sua attività attenzione a quanto andava affermando molto spesso in dissonanza con il coro, sentirà la mancanza dei suoi commenti e non per breve tempo.