Meloni stretta in una tenaglia tra la guerra del leghista ai migranti, il Pnrr e il Patto di stabilità
La tenaglia in cui si trova stretta Giorgia Meloni è dura da sopportare. Forse persino troppo, considerando che il governo è in carica da poche settimane. Ma tant’è. L’ultima cosa utile in questo momento, con i problemi irrisolti del Patto di stabilità e del Pnrr, era inaugurare un conflitto sui migranti con la Francia e, in via indiretta, con il resto dell’Unione. Peraltro l’intera vicenda sembra condotta da Roma con imperizia e un certo velleitarismo. Era interesse del destra-centro aprire il contenzioso? In apparenza, no.
Di sicuro non era interesse della presidente del Consiglio, desiderosa invece di accreditarsi nelle capitali europee. Tuttavia il peggio è accaduto per varie ragioni. Una delle quali è l’attitudine di Salvini: per un verso il capo leghista tenta di dettare l’agenda, quanto meno sul controllo dei porti, vecchio cavallo di battaglia; e per l’altro lascia che sia la premier a sbrogliarsela, visto che lui non ha motivo per volerla tranquilla al centro della scena.
La guerra ai migranti, alle navi, alle Ong era destinata alla sconfitta in partenza: al momento attuale il governo non ha gli strumenti per vincerla. Prima deve costruire una rete di relazioni oltralpe, magari cominciando dalla Germania. L’ostilità dei mass-media è evidente e in Europa c’è chi non vedeva l’ora di far inciampare la destra italiana. Non occorreva un particolare talento per capirlo. Giorgia Meloni, per la verità, aveva cercato di seguire una linea accomodante, in particolare con la Francia, ricercando un’intesa, ma con ogni evidenza ha sottovalutato la posta in gioco.
È stato un errore pensare di risolvere il problema, che si trascina da anni, attraverso una garbata richiesta di solidarietà e poi scivolare nella gaffe di presentare come un cedimento il gesto di buona volontà francese. Così come ora lascia perplessi la reazione del ministro della Difesa che dice: “Vogliamo obbligare l’Unione europea a non voltarsi dall’altra parte e a prendere una decisione seria, razionale, definitiva”.
Obbligare? Questo atteggiamento, che vuole rappresentare l’orgoglio nazionale, in realtà dimostra debolezza. Da un lato infatti c’è un esecutivo appena nato, figlio di una cultura politica in buona misura eterodossa rispetto all’Europa come l’abbiamo conosciuta dal dopoguerra a oggi. Dall’altro c’è una Francia diffidente, timorosa del contagio destrorso, guidata da un Macron forte grazie ai poteri di cui dispone, ma fragile in parlamento. Un Macron che si considera il “lord protettore” di un’Italia riottosa e non esita a dimostrarlo, non senza una dose di arroganza.
Oggi la premier, che ha appena avuto l’occasione di confermare la sua lealtà all’alleanza atlantica, incontrerà Manfred Weber, autorevole esponente dei Popolari tedeschi. Questi desidera rapporti di buon vicinato con Fratelli d’Italia per coinvolgerli nella tutela degli equilibri a Bruxelles.
A sua volta, Giorgia Meloni può trarre vantaggio dal rapporto col Ppe, sullo sfondo delle crepe che attraversano il fronte franco-tedesco non più compatto come un tempo. È chiaro tuttavia che al governo italiano serve un’idea positiva su come stare in Europa; un’idea strategica senza la quale si troverà in balia di episodi sempre più distruttivi.