Per capire il perché della tanta confusione e della apparente inutilità di tutto ciò che i vari leader di partito hanno fatto e detto dal giorno dopo le elezioni del 4 marzo fino a oggi, bisogna tenere a mente che la politica è per lo più rappresentabile mediante una figura con tre cerchi concentrici.
Il cerchio più grande e esterno è composto dall’insieme degli elettori. A schiacciante maggioranza essi non seguono, se non con occhio distratto, le vicende pubbliche. Si limitano a votare e poi tornano a occuparsi d’altro. Al massimo, si aspettano — ma, spesso, senza illudersi troppo — che coloro per cui hanno votato risolvano alcuni problemi che stanno loro a cuore. Se delusi si vendicheranno (forse) votando in un altro modo al round elettorale successivo.
C’è poi un secondo cerchio, molto più ristretto, dai confini incerti e fluttuanti ma che coinvolge sempre e comunque minoranze. È il cerchio dei militanti, quelli che seguono tutto e tifano per la squadra politica del cuore. Sempre pronti a dare del traditore, del venduto, al capo-squadra (il leader) che faccia mosse che essi ritengono incongruenti con il loro credo politico.
Il terzo cerchio, quello più interno, piccolissimo, è infine composto dai leader. Una volta fatte le elezioni, i leader devono fare i conti soprattutto con i loro «fan», i militanti del secondo cerchio. Tutto ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi due mesi, le schermaglie, le dichiarazioni di fuoco, i veti incrociati, eccetera, erano, e sono, messe in scena dai leader a beneficio dei rispettivi fan.
Il problema che hanno di fronte i leader, naturalmente, è che, facendosi ricattare troppo a lungo dai fan (molti dei quali contrari a qualsiasi «cedimento» nei confronti degli avversari) rischiano di compromettere il rapporto con i loro elettori, quelli che stanno nel cerchio più esterno. Se l’Italia ha ora una chance di uscire (solo provvisoriamente, si capisce) dall’impasse in cui l’hanno costretta i risultati elettorali, tale chance dipende dal fatto che i leader trovino conveniente, da questo momento in poi, agire per non compromettere il rapporto con gli elettori. Anche a costo di deludere e fare arrabbiare una parte dei fan.
In una democrazia rappresentativa, se non vince nessuno, può solo formarsi un governo dei «non vincitori». È la situazione italiana. Qui ci sono stati solo alcuni veri perdenti e alcuni finti vincitori: ci sono stati gruppi che hanno perso molti voti e altri gruppi che ne hanno guadagnati tanti ma che, tuttavia, non hanno vinto un fico secco: vincere significa acquistare il controllo della maggioranza assoluta dei seggi sia alla Camera che al Senato.
Né il trio Grillo-Casaleggio-Di Maio, né Salvini hanno vinto. Si tenga conto dunque della complicatissima situazione in cui si è trovato il presidente della Repubblica. Egli si è mosso con grande intelligenza politica. Ha fin qui lasciato che «i ragazzi si sfogassero», che i finti vincitori facessero un po’ gli smargiassi (ne avevano certamente il diritto) e che i perdenti (Pd e Forza Italia) si leccassero le ferite. Anche i mandati esplorativi ai presidenti del Senato e della Camera sono stati — oltre che ineccepibili dal punto di vista costituzionale — coerenti con quella strategia.
Adesso però la campanella che annuncia la fine della ricreazione sta per suonare. Vedremo se l’ultima mossa di Salvini (ora forse disposto a mollare Berlusconi per un governo con i 5 Stelle) è una cosa seria o solo un tentativo di allungare di qualche giorno i tempi della ricreazione. Fosse una cosa seria, i giochi cambierebbero radicalmente. In caso contrario, non resterebbe che il ritorno al voto entro ottobre o la formazione di un qualche governo della «non sfiducia» che gestisse certe scadenze (legge di Stabilità, negoziati in Europa).
La mossa di Grillo (rilancio del progetto del referendum sull’euro) fa pensare che chi comanda davvero nei 5 Stelle punti a nuove elezioni subito. Ma non è detto che gli convenga. Se ci fossero elezioni subito una parte di coloro che si sono astenuti alle ultime consultazioni questa volta voterebbe: fra loro, sarebbero di più i favorevoli o i contrari ai 5 Stelle? Le mobilitazioni innescano contro-mobilitazioni e nessuno può prevedere l’esito finale.
Chi si appella ai precedenti deve tener conto delle differenze. I partiti antisistema non sono uguali. Tutti ricordano il senso di responsabilità con cui si muovevano i comunisti nei momenti difficili del Paese. Ma i comunisti erano organici a una alleanza internazionale che faceva capo a Mosca. Non avrebbero mai potuto destabilizzare un Paese Nato senza preventiva autorizzazione sovietica. Gli antisistema di oggi, invece, sono «liberi e selvaggi», non hanno vincoli internazionali. Dunque, è solo il calcolo delle convenienze che può commuoverli, spingerli ad accettare soluzioni di governo che i loro fan non amano.
All’Italia in questo momento serve un governo. Non quel governo cosiddetto «autorevole» che si sente qua e là invocare. I risultati elettorali escludono tassativamente che un tal governo possa nascere. Serve, semplicemente, un governo qualsivoglia — un governo della non sfiducia o dei «non vincitori» appunto — per fronteggiare le emergenze e fare decantare la situazione. Se si votasse ora con la legge elettorale che abbiamo si riprodurrebbe una situazione di stallo. La salute, già cagionevole, della nostra democrazia si aggraverebbe.
Il presidente della Repubblica troverà una soluzione. Ma solo se i leader saranno capaci di dire «cari fan, addio».[spacer height=”20px”]
Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 7 marzo 2018