Hanno messo la Banca d’Italia nei pasticci. Era l’ultima cosa di cui avevamo bisogno. Mancano poche settimane e c’è il rischio che la faccenda non sia più occultabile. Abbiamo un doppio rammarico: perché si tratta di un’istituzione importante e perché avevamo previsto che le cose sarebbero andate male. Ora rimane davvero poco tempo, per smentire quella nostra previsione.
Nel 2013 si vollero rivalutare le azioni (quote) della Banca d’Italia, cambiandone l’assetto proprietario. Lo si fece nel peggiore dei modi. Fu Camillo Benso, conte di Cavour, a volere una banca emittente sabauda, allora posseduta da privati. Nel 1936, con la legge bancaria, quelle quote furono assegnate alle banche pubbliche, per un valore di 300 milioni di lire (156mila euro). La Banca centrale era in mano pubblica, perché posseduta da soggetti pubblici. E’ così in tutto il mondo, dove anche quando è quotata in Borsa (solo tre eccezioni) comunque il controllo è pubblico. Il problema lo vide già Enrico Cuccia, osservando che con la privatizzazione del sistema bancario il controllato si ritrovava a possedere il controllore. Intendiamoci: l’autonomia della Banca centrale è garantita dalle leggi e scolpita nel Sistema europeo delle banche centrali (Sebc). Non è in discussione. Appunto per questo sarebbe stato saggio rivalutare le quote in mano allo Stato, non nelle tasche dei privati.
Nessuna banca aveva mai corso alcun rischio, investendo in quelle quote. Nessuno, del resto, lo aveva mai fatto per scelta. Erano un derivato della storia, sicché nessuno ne aveva meriti e poteva legittimamente trarne dei guadagni. Bastava prenderle, al loro valore storico, e rimetterle da dove vennero, nel patrimonio pubblico. Con legge del 2014 (numero 5), si fece il contrario: il loro valore si moltiplicò restando nel portafoglio di soggetti privati. Alcuni operarono rivalutazioni per i fatti propri, raggiungendo effetti miracolosi di vedere crescere il valore del 180.000%. La stessa legge, inoltre, stabiliva che entro il 31 dicembre 2016 nessuno avrebbe potuto possedere più del 3% di quelle azioni.
Osservai all’epoca: e chi se le compra, posto che chi le vende non le ha pagate, mentre chi le compra non può farsene altro che tenerle in una bacheca? Le aggregazioni bancarie, del resto, avevano enormemente concentrato quelle quote, al punto che Intesa ne aveva più del 42% e Unicredit più del 22.
Veniamo a oggi. Il primo ottobre, secondo quanto stabilisce la legge, i primi cinque azionisti avrebbero dovuto possedere il 15% (3×5). Secondo quanto c’informa la Banca d’Italia, invece, possiedono il 59%. Una bella differenza. Intesa ha ancora il 26%, Unicredit il 18.
Qualche cosa si è mossa, non solo, però, è assai meno del necessario, ma gli acquirenti sono casse previdenziali e assicurazioni. Soggetti che hanno tutta l’aria di avere agito spintaneamente. Vista la mala parata Banca d’Italia ha preso in considerazione l’autofagia, ovvero l’acquisto di quote del proprio capitale. Ma il limite di tali operazioni è stato fissato a 500 milioni l’anno, mentre, secondo i dati disponibili a fine aprile, le vendite già effettuate erano pari a 1 miliardo di euro e quelle da farsi entro l’anno ammontano a 4 miliardi. A via Nazionale ci mettono otto anni, per deglutire un boccone così grosso, non otto settimane.
Non so se riusciranno a metterci una pezza, se si potrà indurre altri compratori a investire in titoli il cui valore è più onorifico che di mercato. So, però, e fa rabbia, che questo triste scenario non era solo prevedibile, ma previsto. Una cosa che poteva essere fatta in modo elegante e risolutivo è stata fatta in modo obliquo e capace di strascicarsi nel tempo. Il tutto per essersi piccati di aumentare in quel modo il patrimonio di alcune banche, salvo poi tassarle maggiormente per far fronte alle sempiterne esigenze dell’erario. Un classico della meno esaltante tradizione nazionale: far scemate supponendo siano furbate.
Davide Giacalone, Il Giornale 8 ottobre 2016