In Italia i poveri sono notevolmente diminuiti e anche la distanza reddituale fra chi guadagna di più e chi di meno. Siccome questa affermazione – che non teme smentite dai dati ufficiali, regolarmente raccolti con metodologie che si usano in tutta Europa – fa a pugni con la percezione di molti e con le propagande di informatori e politici, vale la pena di prestare attenzione e cercare di capire cosa generi sentimenti così negativi.
Dobbiamo a Marco Fortis, Fondazione Edison, il lavoro di scavo in dati già pubblici ma non pubblicati (si trovano su “Il Sole 24 Ore” di ieri). Nel senso che quando sono negativi vengono urlati – magari senza essere spiegati – mentre quando dicono altro li si trascura, commettendo un doppio errore, di raffigurazione e di indirizzo.
Secondo i dati diffusi dall’Istat, il 20,1% degli italiani è a rischio povertà. Una condizione nella quale ci si trova quando si consuma meno del 60% dei consumi mediani (che sono inferiori a quelli medi). Considerato che in quei consumi ci sono anche le vacanze, risulta evidente che un povero nell’Italia di oggi è più ricco di un povero degli anni Cinquanta. Ma se quello è il “rischio”, andiamo a vedere i dati di quanti si trovano in “severa deprivazione materiale e sociale”, ovvero i calcolati come già poveri (sono tali quanti non sono in grado di soddisfare almeno 7 di 13 bisogni basici, fra i quali c’è una cena fuori casa la settimana, la connessione Internet a casa e il potere svagarsi fuori casa e a pagamento). Ebbene: sono diminuiti moltissimo, passando fra il 2015 e oggi dal 12 al 4,5% degli italiani. In Francia e in Germania sono cresciuti, collocandosi rispettivamente al 7,5 e al 6,1%. Tale risultato si è forse ottenuto con politiche di sostegno o assistenza? No, con la crescita dell’occupazione e della produzione. Il mercato è stato più “sociale” della politica. In quanto alla distanza fra redditi alti e bassi – che in tutto il mondo si misura con il coefficiente di Gini (uno statistico italiano) – è diminuita, non aumentata. Tenuto presente che in Italia era già bassa. Non siamo mica gli Usa e molti di quelli che parlano della distanza cresciuta hanno in mente i miliardari americani.
E allora, va tutto bene? Viviamo nel migliore dei mondi? Questo è l’approccio retorico di chi non ha nulla da dire se non lamentare e dolere. No, non va tutto bene e per diverse ragioni. Intanto perché in un Paese che cresce più velocemente le distanze reddituali aumentano e non è un male. Poi perché si fa comunicazione e politica mescolando impoverimento e povertà, che non sono affatto la stessa cosa (posso essere impoverito e restare benestante). Se non si parte dalla realtà reale e anche dai miglioramenti non si saprà mai cosa funziona e perché, cosa non funziona e va cambiato. Se la raffigurazione è soltanto negativa serve esclusivamente a spendere di più, ovvero a sperperare i soldi dei contribuenti.
E poi c’è un nodo: l’inflazione erode il potere d’acquisto, mentre i redditi (mediamente) non crescono. Ciò comporta che il ceto medio che si trova poco al di sopra della povertà cominci a coltivare la paura di scivolare in basso. Questo è il sentimento spaventoso, che può diventare assai nocivo, specie se alimentato con conferme che non sono reali. Come trovarsi in un reparto ospedaliero in cui si diffonde la notizia del moltiplicarsi dei morti, mentre non viene detta una parola sui dimessi: per forza che hai paura.
Non si tratta di usare il colore rosa o il nero, men che meno l’essere filo o contro chi governa. Se si trucca la percezione della realtà non si racconta cosa serva a scacciare la paura: scuola meritocratica, che riscatti chi è in coda alla società; elasticità nel mondo del lavoro, per entrarci assai più numerosi; meno fisco e previdenza, destinati a pagare privilegi e rendite altrui. E l’occasione c’è, ora, con i fondi europei Ngeu. È il tempo di saper osare, anziché sprecarlo a consolare e promettere come risolutivo un assistenzialismo che è impoverente e debilitante.