Qual è il risultato dello scontro con l’Europa sulla legge di bilancio? Carlo Cottarelli tira le somme all’indomani dell’accordo tra Commissione europea e governo.
L’accordo con l’Europa scongiura il pericolo immediato di una reazione negativa dei mercati finanziari e fa scendere lo spread. Ma la legge di bilancio che ne esce non fa nulla né per la crescita né per i conti pubblici. Certo è meglio della versione iniziale ma questo non ci può consolare.
Chi vince e chi perde da questo confronto con l’Europa? Tra governo italiano e Commissione Europea finisce pari e patta. Tria stava negoziando in settembre un defict dell’1,6%. Il governo ha annunciato il 2,4 %. L’accordo è stato trovato sul 2%. Cose da mercato rionale, solo che al mercato rionale ce la si sbriga in pochi minuti, non in mesi di negoziazioni e incertezza. La commissione può vantare di essere riuscita a ottenere misure aggiuntive per oltre 10 miliardi, e non sono poco, senza rinunciare alla possibilità di riaprire la questione a inizio marzo, quando i conti del 2018 saranno pubblicati (anche se a poco più di due mesi dalle elezioni europee l’inizio di una procedura di infrazione sembra difficile). Il governo può vantare di aver mantenuto le due principali misure promesse agli elettori: la Controriforma delle pensioni e il reddito di cittadinanza. Gli stanziamenti iniziali sono stati ridotti: ci viene detto che hanno fatto meglio i calcoli e si sono accorti che servono meno soldi. Il fatto è di per sé preoccupante (avevano sbagliato i calcoli?), ma in realtà nessuno può verificare quanto la spiegazione data sia vera, semplicemente perché i dettagli di questi provvedimenti non erano mai stati annunciati (e i dettagli sono importantissimi in materia di finanza pubblica).
Chi ci perde? Ci perde la stabilità economica italiana. La legge di bilancio rappresenta, ancora una volta, un prolungamento dello status quo. Un deficit al 2 per cento è pari a quello medio degli ultimi anni. L’avanzo primario (il saldo di bilancio al netto della spesa per interessi) dovrebbe essere di poco al di sopra dell’1,5 per cento, anche qui in linea con quello degli anni passati. E sembra difficile che il debito pubblico possa scendere in modo significativo rispetto al Pil (a meno di operazioni fantasiose, compreso nella «vendita» del patrimonio immobiliare dello Stato).
Insomma, il governo del cambiamento non ha cambiato nulla, tranne forse cambiare idea sulla possibilità, per un Paese ad alto debito come il nostro, di usare la leva della spesa pubblica per sostenere il Pil (ci ha pensato lo spread). Il prolungamento dello status quo nei nostri conti pubblici aumenta però i rischi perché riduce il tempo a disposizione prima che l’economia mondiale ed europea rallenti, prima che il sentimento sui mercati finanziari internazionali si indebolisca, prima che una qualunque spinta recessiva porti a un aumento del rapporto tra il nostro debito pubblico e il Pil e a una nuova crisi di fiducia.
Ci perdono le prospettive di crescita dell’economia italiana. Non è tanto l’abbassamento delle previsioni di crescita del Pil del governo (dall’1,5 all’1 per cento, obiettivo anche questo piuttosto ottimistico). Ma è l’assenza nella manovra di significative misure strutturali che possano portare a maggior crescita. Il reddito di cittadinanza, al meglio, serve a sostenere chi non trova un lavoro. I pensionamenti anticipati renderanno contenti quelli che desiderano smettere di lavorare prima (anche se con pensioni più basse). Ma portano a crescita? No. Dal lato della domanda, non lo fanno visto che il deficit complessivo resta più o meno invariato. Queste spese aumentano, ma altre sono ridotte e la pressione fiscale aumenta. Dal lato dell’offerta, queste misure assistenziali non inducono certo le imprese a investire di più e senza maggiori investimenti non si cresce.
Concludo con due perdenti «istituzionali». Ci perde la trasparenza nel processo di approvazione della legge di bilancio. Si chiede al Parlamento di votare in pochi giorni una legge di bilancio completamente diversa da quella inizialmente presentata, senza una chiara definizione del quadro macroeconomico complessivo per i prossimi tre anni. Se anche sarà presentata una nuova nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, non ci sarà tempo per una sua adeguata discussione. Ci perde anche la credibilità delle regole europee che si sono ancora una volta rivelate inadeguate a indurre un Paese ad alto debito come l’Italia a ridurlo. Non so come i tecnici di Bruxelles riusciranno a giustificare il mancato inizio di una procedura di deficit eccessivo (ricordo che inizialmente l’obiettivo di deficit per l’Italia era dello 0,9 per cento per il 2019). Ma troveranno certo una giustificazione per quella che è chiaramente una decisione politica che, semmai, avrebbe dovuto essere riservata al Consiglio Europeo e non alla Commissione che dovrebbe esprimere un parere tecnico e indipendente.
Carlo Cottarelli, La Stampa giovedì 20 dicembre 2018