Il Consiglio superiore della magistratura non riesce a intervenire ed è ormai diventato un «meccanismo para-parlamentare», la politica legifera continuamente sul tema moltiplica i reati e non riesce a introdurre sanzioni diverse dal carcere
«Se il pubblico vede i giudici come politici con la toga, la sua fiducia nelle corti e nella legalità può solo diminuire, riducendo il potere delle corti, incluso quello di agire come controllori degli altri poteri». «La legalità dipende dalla fiducia che le corti siano guidate da principi giuridici, non dalla politica».
Queste due frasi sono state pronunciate il 6 aprile scorso nell’Università di Harvard dal giudice della Corte suprema americana Stephen Breyer in una «Scalia Lecture» su «l’autorità della Corte e il pericolo della politica». Solo tre giorni dopo, il presidente Biden ha firmato un «Executive Order» con il quale ha istituito una commissione su quel «mostro sacro» che è la Corte suprema americana, suscitando reazioni positive e negative, specialmente da parte di coloro che temono che venga avviato quel «packing» della Corte suprema che aveva tentato, senza successo, negli anni ’30 del secolo scorso, il grande presidente Franklin Delano Roosevelt.
Non è solo in Italia, quindi, che si discute dei rapporti tra politica e giustizia e non è solo in Italia che si conta su una commissione per studiarli. In Italia, nel luglio 2020 è stata presentata in Parlamento una proposta di legge istitutiva di una Commissione di inchiesta sull’uso politico della giustizia, sulla quale negli ultimi giorni si è riacceso il dibattito. È quindi utile fare qualche riflessione sia sulla legittimità, sia sull’opportunità di un’inchiesta parlamentare sulla giustizia.
L’articolo 82 della Costituzione prevede che ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse: non c’è dubbio che quella dei rapporti tra politica e giustizia sia tale. L’argomento che il Parlamento non possa indagare sulla giustizia, perché questa appartiene ad un altro potere, dimostra troppo. Se fosse corretto, i giudici, a loro volta, non potrebbero indagare né parlamentari, né amministratori pubblici, che sono parte, rispettivamente, del potere legislativo e di quello esecutivo. Aggiungo che il Parlamento, nell’esercizio del suo potere di inchiesta, non svolge una funzione legislativa, e che, se negli Stati Uniti, dove la separazione dei poteri è molto più forte che in Italia, il capo del potere esecutivo ha potuto nominare una commissione sul vertice del potere giudiziario, a maggior ragione ciò può essere fatto in Italia, dal Parlamento, sui rapporti tra politica e giustizia.
Infine, se il Consiglio superiore della magistratura non affronta il problema, è giusto che sia il Parlamento a interessarsene. Se è legittimo che il Parlamento avvii una inchiesta sui rapporti tra politica e giustizia, è anche opportuno farlo? La situazione della giustizia, oggi, in Italia è peculiare. Da un lato, si assiste a una dilatazione del ruolo dei giudici, dall’altro ad una crescente inefficacia della giustizia.
Molti osservatori concordano sul fatto che la magistratura sia diventata parte della «governance» nazionale; che vi sia una indebita invasione della magistratura nel campo della politica e dell’economia; che in qualche caso la magistratura cerchi persino di prendere il posto della politica, controllando anche i costumi, oltre ai reati, proponendosi finalità palingenetiche delle strutture sociali, stabilendo rapporti diretti con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione, con una presenza continua nello spazio pubblico.
Nella situazione ora descritta, un posto particolare hanno acquisito le procure, tanto che molti esperti parlano di una «Repubblica dei pm», divenuti un potere a parte, con mezzi propri, che si indirizzano direttamente all’opinione pubblica, rubando la scena mediatica, avvalendosi della «favola» dell’obbligatorietà dell’azione penale, utilizzando la cronaca giudiziaria come mezzo di lotta politica e trasformando l’Italia in una «Repubblica giudiziaria».
Dall’altra parte, mentre la magistratura continua la politica malthusiana di reclutamento e sta dando uno spettacolo penoso per frantumazione correntizia, protagonismo e autoreferenzialità, il processo è in crisi per la sua lentezza. La Commissione sull’efficacia della giustizia, del Consiglio d’Europa, ha valutato che per concludere un processo civile nei tre gradi sono necessari più di 7 anni e per un processo penale più di 3. Così si alimenta la fuga dalla giustizia e imprenditori italiani e stranieri non investono nel timore dell’incertezza del diritto.
Il Consiglio superiore della magistratura non riesce ad intervenire, perché ormai diventato «meccanismo para-parlamentare», che attribuisce i vertici degli uffici giudiziari, in molti casi, sulla base di criteri politici o correntizi, consente troppi incarichi extragiudiziari e permette che oltre 200 giudici svolgano compiti non giurisdizionali nella posizione di «fuori ruolo», molti persino nel Ministero della giustizia, che è parte del potere esecutivo. Inoltre, il Csm non contrasta una concezione proprietaria della funzione giudiziaria da parte della magistratura e non riesce a valutare i magistrati.
Il sistema politico, a sua volta, non è privo di colpe, perché legifera continuamente sulla giustizia, moltiplica i reati, non riesce a introdurre sanzioni diverse dal carcere, tollera mezzi di prova invasivi della vita privata delle persone, dilata l’uso del diritto penale e lascia il campo aperto alle procure; a corto di idee e programmi, ha delegato alla magistratura il controllo della virtù, sottoponendosi anch’esso a tale controllo e rinunciando alle immunità che i costituenti avevano introdotto. Conclusione: è consigliabile avviare una inchiesta parlamentare sul rapporto tra politica e giustizia.