Certo che il Presidente del Consiglio prof. Conte ha corso un brutto rischio quando il 14 settembre, nel trigesimo della tragedia del ponte Morandi, ha parlato ai genovesi in piazza de Ferrari. Se qualcuno avesse osato chiedergli di riassumere almeno le cifre e le date scritte sui fogli di carta che andava sbandierando e che a suo dire contenevano il testo del decreto per la ricostruzione del ponte, avrebbe avuto il suo bel da fare per trarsi d’imbarazzo, visto che per avere qualche cifra e qualche data gli italiani, e in particolare i più diretti interessati, cioè i genovesi, hanno poi dovuto aspettare altre due settimane, quando l’hanno potuto leggere sulla Gazzetta Ufficiale del 28 settembre, mentre un’altra settimana è poi passata per conoscere il nome del commissario attuatore, che finalmente sappiamo essere il sindaco della Città, che sin dal primo momento sembrava a tutti che fosse la più ragionevole delle soluzioni.
Per la verità, cosa questa che è passata quasi inosservata, soltanto l’intero capo primo del decreto 109-2018 (undici articoli) e l’art. 45 del capo quinto riguardano specificatamente la ricostruzione del ponte, mentre altri 34 articoli riguardano altre materie (sicurezza della rete infrastrutturale, eventi sismici di Ischia del 2017 e dell’Italia centrale del 2016-2017, interventi vari), forse anche importanti ma certo non tanto da rischiare di appesantire un provvedimento realmente emergenziale come quello richiesto dalla tragedia genovese, e così rischiando di renderne discutibili anche le caratteristiche di straordinaria necessità e urgenza prescritte dall’art. 77 Cost.
Ma, si sa, quando è alle viste un decreto legge, che gode di una corsia parlamentare privilegiata, è difficile resistere alla tentazione di agganciarvi altri vagoni, come per la verità hanno fatto quasi tutti i governi del passato, instaurando una prassi a cui anche il così detto “governo del cambiamento” non è stato capace di sottrarsi, nonostante la chiara prescrizione della norma costituzionale, ma anche dell’art. 15, comma 3, della L. 400-1988 (la normativa di rango primario che disegna l’ordinamento della Presidenza del Consiglio), secondo cui i decreti legge devono rispondere a ragioni di straordinaria necessità e urgenza e devono avere contenuto specifico e omogeneo, come ha più volte ricordato la Corte Costituzionale a partire dalla sentenza n. 376-2001.
Sta di fatto che, fermando l’attenzione sulla parte che più propriamente riguarda la ricostruzione del ponte, non è che la sua semplice lettura riesca a soddisfare le legittime curiosità circa i costi e tempi previsti per uscire dall’emergenza, che è poi ciò che, una volta elaborato il lutto per le vittime e metabolizzata la perdita delle case e delle attività a rischio, angustia ora i cittadini del ponente e del levante, pressoché impossibilitati a spostarsi da una parte all’altra della città, mentre vengono colpite a morte le imprese, che da quel porto traggono alimento, e tutte le innumerevoli fonti di reddito che anche indirettamente ne derivano.
Quanto ai tempi previsti per la ricostruzione, siamo già passati dall’iniziale previsione formulata dal concessionario ASPI in otto mesi, sino ai rumors che li hanno fatti via via lievitare prima a dodici e poi a sedici mesi, in un crescendo rossiniano che potrebbe continuare senza fine.
E ci resterà il dubbio che lasciandola fare alla società concessionaria, impregiudicata restando la complessa questione delle relative responsabilità penali, civili e anche amministrative, il ponte sarebbe stato ricostruito negli otto mesi inizialmente previsti; ma non lo sapremo mai!
Tuttavia, se la ricostruzione procedesse anche nel più lungo dei termini sin qui sbandierati, poco male; ma sarà proprio cosi?
Per saperne qualcosa in più, sono andato a rileggere il testo del decreto e in particolare il comma 6 dell’art. 1, che regola il finanziamento dei costi per la ricostruzione, che è poi, come dire, lo spartito sulla cui base sono destinati a svilupparsi anche i tempi della ricostruzione.
Il meccanismo che ne emerge è il seguente: la norma inizia con la retorica declamazione che pone a carico del concessionario ASPI l’obbligo di anticipare i costi e, in caso di prevedibile rifiuto, autorizza il Commissario a individuare un soggetto “pubblico o privato” disponibile ad anticipare le somme, contro cessione “pro solvendo” del credito litigioso verso ASPI; il che vuol dire che, se non si riesce a incassare, l’onere definitivo finirà per restare a carico del pubblico bilancio.
Sulla ragionevole premessa che a nessun soggetto privato possa venire in mente di impelagarsi in una vicenda del genere, destinata a concludersi se e quando una qualche responsabilità sarà stata accertata con sentenze definitive di varia natura, si può sin d’ora prevedere che l’onere dell’anticipazione dei costi finirà per gravare su una qualche società della pubblica galassia, a partire dalla Cassa Depositi e Prestiti, che, grazie a tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, si avvia a diventare una nuova “mamma IRI”, utilizzando impropriamente il risparmio postale di cui è depositaria..
Ai tecnici della ragioneria Generale dello Stato una tale anticipazione di risorse, in mancanza di una garanzia statale, deve essere sembrata assolutamente virtuale, in termini che non avrebbero consentito di “bollinare” l’aspetto finanziario del decreto.
Si è quindi previsto che “Per assicurare il celere avvio delle attività del Commissario, in caso di mancato o ritardato versamento da parte del Concessionario, a garanzia dell’immediata attivazione del meccanismo di anticipazione è autorizzata la spesa di 30 milioni di euro annui dall’anno 2018 all’anno 2029”, operando, nel medesimo periodo, una “corrispondente riduzione del Fondo di cui all’articolo 1, comma 1072 della 205-2017”, che è la legge di bilancio 2018.
“Ai fini della compensazione in termini di fabbisogno e indebitamento netto”, si provvede poi “quanto a 40 milioni di euro per l’anno 2018 e 120 milioni di euro per l’anno 2019, mediante corrispondente riduzione del medesimo Fondo ……… e quanto a 20 milioni di euro per l’anno 2018, 40 milioni di euro per l’anno 2019, 20 milioni di euro per l’anno 2020, mediante corrispondente utilizzo del Fondo per la compensazione degli effetti finanziari non previsti a legislazione vigente conseguenti all’attualizzazione di contributi pluriennali, di cui all’articolo 6, comma 2, del DL 154-2008”, che per la verità riguardava il contenimento della spesa sanitaria, e che sua volta rinviava ad altro Fondo istituito “per le finalità previste dall’art. 5-bis, comma 1 del DL n. 138-2011”, in materia di sviluppo delle regioni meridionali in attuazione del c. d. Piano Sud..
Per amore di Patria, ho provato a ridurre e semplificare, senza neppure riuscirci, il guazzabuglio di leggi, articoli, commi ed criptiche espressioni contabili in cui qualsiasi cittadino, anche particolarmente acculturato, è destinato a smarrirsi, finendo per affidarsi alla mano dello Stato, che tutto può e vuole, tanto, un qualche codicillo a cui ancorare una spesa pubblica si trova sempre! E quanto a trasparenza ovviamente, neanche a parlarne, neppure all’epoca del “governo del cambiamento”.
Sta di fatto che, attraverso queste problematiche compensazioni, che ovviamente sottraggono risorse ai fondi in precedenza destinati ad altri scopi, viene contabilmente evitato l’aumento del deficit dello Stato, che, come ora sappiamo, nel prossimo anno è destinato comunque a lievitare sino al 2,4%, se non oltre..
Se e quando il Concessionario provvederà poi a versare le somme necessarie per il ripristino, il fondo utilizzato per garantire l’anticipazione verrà reintegrato a cura del Commissario che avrà incassato le somme.
A sua volta, l’art. 45 del decreto, che è la norma destinata alla copertura finanziaria, si occupa di individuare solo le risorse per coprire i costi della struttura commissariale previsti dal comma 2 dell’art. 1, e quelli dei diversi interventi previsti dagli altri articoli del decreto.
Dal combinato disposto di tutto ciò emerge chiaramente che una vera e propria norma di copertura finanziaria dei costi della ricostruzione non c’è, mentre il decreto si limita a fornire una garanzia duodecennale di 30 milioni annui a favore del soggetto “privato o pubblico” che si sia eventualmente offerto di anticiparli, in misura che per altro, allo stato, resta assolutamente ignota, anche perché è stato impedito alla società concessionaria di fornire un progetto sulla base dell’idea architettonica generosamente formulata da Renzo Piano.
All’assoluta incertezza finanziaria e temporale, si aggiunge poi la surreale norma del comma 7 dell’art. 1, con cui si dispone che l’opera debba essere aggiudicata a “uno o più operatori economici che non abbiano alcuna partecipazione, diretta o indiretta, in società concessionarie di strade a pedaggio, ovvero siano da queste ultime controllate o, comunque, ad esse collegate”.
Si tratta di un’esclusione pregiudiziale e discriminatoria che, oltre a essere difficilmente verificabile nell’attuale asseto dell’economia globalizzata, viola contemporaneamente:
a. la libertà d’iniziativa economica prevista dall’art. 41 Cost., e il dovere d’imparzialità della Pubblica Amministrazione previsto dall’art. 97 Cost.;
b. tutte le regole comunitarie sulla concorrenza tra gli operatori economici, che devono essere trattati “su un piano di parità e in modo non discriminatorio”, a norma dell’art. 18 della Direttiva 2014/24/UE, che vieta di “limitare artificialmente la concorrenza”, come avviene quando “la concezione della procedura sia effettuata con l’intento di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici”;
c. il nostro codice degli appalti (D. Lgs. 50-2016, emanato in attuazione di quella Direttiva e in esecuzione della legge-delega n. 11-2016), il cui art. 30 prescrive tra l’altro, al comma 1, che “Nell’affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, …. ”; e, al comma 2, che “Le stazioni appaltanti non possono limitare in alcun modo artificiosamente la concorrenza allo scopo di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici o, nelle procedure di aggiudicazione delle concessioni, compresa la stima del valore, taluni lavori, forniture o servizi”.
Si tratta di principi interni e vincoli comunitari cui l’operato della Pubblica Amministrazione deve uniformarsi, anche ai sensi del comma 1 dell’art. 117 Cost., come ha più volte affermato in materia la Corte Costituzionale, per la quale occorre “assicurare l’adozione di uniformi procedure di evidenza pubblica nella scelta del contraente, idonee a garantire, in particolare, il rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza” (così, da ultimo, l’ordinanza n. 76-2018).
Resta poi incerta la possibilità di procedere all’affidamento della ricostruzione “mediante una procedura negoziata senza previa pubblicazione”, come sembra si voglia fare, a tal fine invocando l’art. 32 della Direttiva 2014/24/UE, che è possibile utilizzare, in particolare, quando “per ragioni di estrema urgenza derivanti da eventi imprevedibili dell’amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati”.
E tuttavia, tale deroga è consentita solo se “Le circostanze invocate per giustificare l’estrema urgenza non sono in alcun caso imputabili alle amministrazioni aggiudicatrici”; e viene di pensare che, essendo già trascorsi pressoché inutilmente oltre cinquanta giorni dalla tragedia genovese, occorrerà confidare nella benevola indulgenza della “perfida Europa” per poterne usufruire.
Dobbiamo quindi attenderci uno sviluppo più che decennale della vicenda, con passaggi giurisprudenziali, interni ed europei, assolutamente imprevedibili, come ha lucidamente previsto il procuratore Carlo Nordio nel corso del convegno “Nazionalizzazioni vs mercato”, svoltosi a Roma il 3 ottobre su iniziativa della Fondazione Einaudi e magistralmente moderato dal vice direttore del TG5 Giuseppe De Filippi; una previsione, questa, che ha trovato totale condivisione negli interventi dell’economista Carlo Cottarelli e del sindacalista Marco Bentivogli, oltre che dai vertici della Fondazione Giuseppe Benedetto e Davide Giacalone.
E tutto questo, solo per non avere voluto fare l’unica cosa che andava invece fatta, e subito: disporre cioè che la società concessionaria, che vi era tenuta in forza della concessione e che si era subito offerta, provvedesse alla ricostruzione immediata del ponte, negli otto o dodici mesi originariamente previsti, impregiudicata restando la complessa questione delle relative responsabilità penali, civili e anche amministrative.
Si sarebbero così sottratti in breve i genovesi al collo di bottiglia nel quale sono oggi infilati, mentre in prospettiva si sarebbe dovuto sbloccare l’iter amministrativo per la realizzazione della viabilità alternativa della Gronda, in vista della quale, per altro, ASPI aveva anche potuto lucrare l’implementazione dei pedaggi.
Ma, si sa, l’UCAS (Ufficio Complicazioni Affari Semplici) è sempre in servizio, più che mai se viene affidato a chi vuol mostrare al nemico di turno la furia patibolare delle sue pulsioni giacobine, rispetto alle quali non v’è riflessione e ragionamento che tenga.
Spero solo che i genovesi per primi, e gli italiani a ruota, se ne accorgano per tempo.
Enzo Palumbo, 12 ottobre 2018