La sinistra ha perso il (suo) popolo e (forze) mai più lo troverà. E questo il tema e il senso più evidente dell’ultimo libro di Luca Ricolfi: Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era del populismo (Longanesi, pagine 282, euro 16,90).
Ovviamente, il libro è tante altre cose: sia dal punto di vista metodologico; sia per gli ampi scenari che propone per portare a concetto il nostro mondo, cosi come esso è andato sviluppandosi nel secondo dopoguerra fino alla “grande crisi” e all’affermarsi, alla fine anche elettorale (leggi Brexit e Trump) di forze variamente “populiste”.
La metodologia di Ricolfi può ben definirsi plurale, essendo lo studioso torinese in queste pagine in parte sociologo e in parte politologo, non avulso da un uso sobrio ma essenziale di dati statistici. Ma egli anche, in parte, storico e, soprattutto, teorico. Ovviamente, a me è soprattutto quest’ultimo Ricolfi che affascina e interessa, per la capacita appunto di delineare scenari ma anche e soprattutto di portare a concetto alcune tendenze di fondo del nostro mondo non sempre comprese o facilmente razionalizzabili.
Questa capacità si trova espressa al massimo grado nella prima parte del libro, più teorica, e nella seconda parte, ove egli cerca di periodizzare e descrivere gli ultimi decenni della storia mondiale.
La terza parte cerca invece di cogliere, con l’ausilio di modelli matematico-statistici, le ragioni dell’affermazione delle forze “populiste” in genere e soprattutto nel territorio politico proprio un tempo della sinistra, cioè fra deboli e emarginati.
La prima parte si pone il classico ma non certo inessenziale problema di cosa siano la destra e la sinistra, come si siano definite in passato. e come si definiscano oggi. E, in conseguenza, se sia ancora questa la dicotomia fondamentale del nostro universo politico o, detto altrimenti, del conflitto politico nel nostro tempo (non c’è politica senza conflitto infatti, cioè senza una divisione fra amico e nemico, anche se lo sforzo o l’illusione del liberalismo e stato sempre quello di concepire il nemico come semplice avversario, cioè evitando di demonizzarlo spostando impropriamente il conflitto sul terreno etico).
Per Ricolfi destra e sinistra sono categorie “superate”
Per Ricolfi destra e sinistra sono categorie “superate”, o meglio non più fondanti il discorso politico, anche se conservano un loro valore empirico o secondario e possono pertanto ancora essere usate a mo’ di “segnaletica” orientativa. Esse sono “prigioniere del Novecento”: in particolare lo sono nell’accezione che ne ha dato Bobbio, che Ricolfi giudica non avalutativa, come pure lo studioso torinese si era proposto che fosse, ma partigiana e comunque legata alle lotte politiche del primo Novecento.
Al modello Bobbio, fondato sull’attribuzione alla Sinistra del perseguimento dell’ideale più che politico, cioè morale, dell’uguaglianza e alla Destra di quello opposto, Ricolfi oppone il modello Hayek, che giudica “generoso”, cioè più obiettivo, perché non demonizza, uguale e contrario, la nobile ricerca dell’uguaglianza propria della sinistra ma semplicemente antepone ad essa la ricerca della libertà.
La libertà anche per Bobbio è un concetto importante e da difendere, ma nella sua visione esso pertiene i mezzi (che devono essere democratici) e non i fini della politica. In sostanza per Bobbio il comunismo sbaglia ad usare mezzi autoritari, ma si pone il fine “giusto” di rendere più uguali le nostre società; mentre per la Destra esso, che usi mezzi democratici o non, si pone comunque un fine sbagliato.
Spostare l’accento sulla libertà significa, per Hayek come per Ricolfi, insistere sull’azione deleteria che lo Stato comunque ha, con la sua azione redistributrice, rispetto alla libertà individuale. Chi è fautore di quest’ultima diffida perciò dello Stato, anche se non per questo è nemico in assoluto dell’uguaglianza come Bobbio vorrebbe far credere.
Hayek si pone il problema delle diseguaglianze, tanto da farsi fautore persino di un reddito minimo di cittadinanza
Hayek si pone il problema delle diseguaglianze, tanto da farsi fautore persino di un reddito minimo di cittadinanza, ma vuole che a risolverlo non sia in via prioritaria lo Stato (egli privilegia soluzioni solidaristiche ex post). In verità, secondo Ricolfi, se il modello Hayek era più aderente alla realtà del secondo Novecento, ed era meno fazioso di quello di Bobbio, anch’esso può dirsi oggi superato: la dicotomia che attraversa l’universo politico, a partire almeno da una ventina di anni a questa parte, è infatti quella fra forze dell’apertura (di destra e di sinistra) e forze della chiusura o “populiste” (egualmente di destra come di sinistra).
Destra e sinistra possono sì conservare, come dicevo, un valore euristico, ma secondario: le misure di protezione economica dei più deboli, possono essere dette di sinistra, e quelle di protezione securitaria da immigrazione, criminalità e terrorismo possono essere dette di “destra”, ma comunque di protezione si tratta. Cioè proprio di ciò che i ceti che tradizionalmente votavano a sinistra cercano e che la sinistra, per come è diventata, non può a loro dare.
La sinistra, che nel frattempo ha spostato il proprio blocco sociale di riferimento verso i ceti medi o “riflessivi”, non li capisce, anzi ridicolizza le loro richieste e parla di mere “percezioni” di pericoli inesistenti. Nulla di più falso: i danni causati dalla globalizzazione, come dimostra la parte statistica del libro, sono per Ricolfi reali e non immaginari.
Di fronte ad essi, la sinistra non solo risponde con le armi del disprezzo per i più poveri e ignoranti, ma genera addirittura irritazione quando, come è accaduto in America (e questo ulteriore motivo di spiegazione per la vittoria di Trump), oppone ai bisogni reali della povera gente una retorica politically correct che non solo marca una distanza antropologica ma non si preoccupa di sfidare spesso il buon senso e di sfiorare qualche volta persino la barriera del ridicolo.
La descrizione che Ricolfi fa, a più riprese, della retorica liberal è essenziale e diretta ed e una delle parti più avvincenti e convincenti del suo libro. «La visione del mondo della cultura liberal è estremamente attraente dal punto di vista filosofico, ma pecca di astrattezza ed è del tutto priva del senso del ridicolo, qualità che invece scorre copiosa nei ceti popolari. Cosmopolitismo, costruttivismo, cultura dei diritti, ecologismo, censura del linguaggio si sono spinti un po’ troppo in là. Troppe volte hanno attraversato le colonne d’Ercole del senso comune, e qualche volta anche del semplice buon senso».
Qui Ricolfi tocca un punto per me essenziale: quello liberal è un pensiero astratto, il che filosoficamente significa che è un portato, ultimo e radicale, dell’illuminismo. E poi tanto strano ricondurre, come spesso fa, alla mancanza di senso storico, e quindi alla mancata visione della complessità e organicità dei problemi, la cifra più evidente del declino intellettuale dei nostri tempi? Nemmeno strano è poi che all’assolutizzazione e radicalizzazione del momento illuministico della dialettica politica corrisponda, uguale e contrario, all’altro polo, l’assolutizzazione e radicalizzazione del mito romantico del “popolo”.
In altre efficaci pagine, Ricolfi mostra come il popolo dei “populisti”, altra cosa rispetto a quello della vecchia sinistra “popolare”, presupponga un concetto “organicistico” e “comunitaristico”, e in questo senso potremmo dire romantico, della società.
Lo stesso ritorno dello Stato nazionale finisce per rientrare in questa linea di discorso. Anche se spesso, nell’ottica dei “populisti”, esso può riproporre all’interno dei suoi confini anche politiche liberiste (ad esempio la detassazione). D’altronde, la “demonizzazione”, servendosi di categorie vecchie come quella di “fascismo”, fraintende il “populismo”.
E non distinguendo ad esempio la xenofobia (“normale” diffidenza per chi appartiene ad altre culture) con il razzismo (che e senso di superiorità e volontà di sopraffazione) finisce per non rendersi conto, in nome di una generica “accoglienza”, dei problemi reali della gente nelle periferie o ai margini del mondo borghese.
Sembrerebbe di capire che Ricolfi spieghi e giustifichi le forze “populiste” non prendendosela con la globalizzazione ma in nome di buone ragioni scaturite da una globalizzazione che stata mal guidata e quindi e stata troppo intensa e troppo veloce. Compito della politica diventa perciò quello di incanalarne le pulsioni più estreme o di assumere in dose omeopatiche porzioni di “populismo”.
Particolarmente indicativa è, in quest’ordine di discorso, la metafora della “porta” che Ricolfi riprende da Marion Le Pen, la nipote di Marine, e oppone sia a quella trumpiana del “muro” sia all’idealismo cosmopolitico di chi credo che il mondo non debba avere semplicemente confini «Non questione – afferma Marion – di costruire muri, ma di mettere porte. La porta la puoi aprire o chiudere, quando necessario».
Il “populismo”, in questo modo, potrebbe imporre anche un ritorno della politica, dopo che essa e stata depotenziata sia dalle dinamiche giuridico-morali sia da quelle economico-finanziarie connesse alla globalizzazione. Quello che a me sembra mancare in queste pur straordinarie e anticonformistiche pagine e una concezione più viva e pregnante dell’idea di liberta.
Ora, sia beninteso, Ricolfi ha buone ragioni nel dire che spesso le forze “populiste” non sono “fasciste” o liberali, ma semplicemente rompono i nostri schemi di ragionamento abituali, o meglio quelli che a un certo punto la sinistra mondiale ha imposto al discorso pubblico.
D’altronde, lo stesso “politicamente corretto” può avere, e spesso ha, con il suo controllo del discorso pubblico, una deriva illiberale (a pagina 219 viene riportata con adesione l’affermazione di Jean-Michel Naulot, che funge anche da esergo al libro, secondo cui populista «è aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando comincia a sfuggirle»).
Fatto sta che la libertà non può essere considerata un valore fra gli altri
Fatto sta che la libertà non può essere considerata un valore fra gli altri. E anche le forze “populiste” saranno misurate, a breve e a lunga distanza, da una parte, dagli spazi di libertà che riusciranno ad aprire, dall’altra, dalla capacità che avranno di finalizzare eventuali “chiusure” (si spera momentanee) alla preservazione della stessa libertà.
Non aveva del tutto torto Bobbio quando, quasi en passant, come riporta Ricolfi, sembrava ammettere che qualcuno (la “esecranda” destra?) può avere anche un concetto positivo della diseguaglianza. Il fatto e che giustizia, eguaglianza, accoglienza, sono tutti concetti empirici, e quindi non sono valori in sé (e nemmeno semplicemente “minori”).
L’eguaglianza soprattutto (e non mi riferisco solo a quella economica), uniformando e castrando le diversità (e le eccellenze), intacca la stessa libertà. Che sia poi, come spesso accade, lo Stato, o siano altre identità, a farlo, anche questo è problema empirico che richiede attenzioni e soluzioni particolari o specifiche ai casi.
Corrado Ocone, Il Dubbio 5 maggio 2017