Il calendario del governo non è quello elettorale. Bene. Il secondo è comunque chiuso e fra qualche giorno sembrerà un lontano ricordo, neanche interessante. Altre scadenze incombono ed occorre non festeggiare la crescita acquisita, ma propiziare quella ancora da costruire. Dalla legge di bilancio al piano d’investimento dei fondi europei, ogni centesimo deve essere appostato dove serve ad aumentare la ricchezza, non a consumarla inutilmente, supponendo sia un diritto acquisito. Ciascuna forza politica prova e proverà a intestarsi questo o quel capitolo di spesa, ergendosi a difesa dei disoccupati, dei pensionandi, dei precari e così via condolendo. Ma nessuna di quelle pretese bandiere sarà minimamente credibile, senza una visione generale e senza la capacità di partire dalla conoscenza della realtà. Prendiamo la povertà, che ci ostiniamo a contabilizzare senza conoscerla: sta a cuore il soccorso a chi ha bisogno? partiamo dalla realtà.
Itinerari previdenziali presentò un ragionamento suggestivo, che riassumo in pochi numeri: nel 2008 le casse pubbliche, quindi i contribuenti, spendevano 73 miliardi per l’assistenza ai bisognosi; dieci anni dopo, nel 2019, la spesa era arrivata a 114.7 miliardi, con una crescita di 41.7 miliardi, ovvero del 56%. Nessuno può essere così arido da negare l’aiuto a chi ne ha bisogno. Nessuno, però, dovrebbe essere così ottuso dal non capire il risultato, perché: nel 2008 l’Istat contava 937mila famiglie in povertà assoluta, mentre nel 2019 erano diventata 1milione 670mila, con una crescita del 78%. La cosa curiosa è che il 2019, prima della pandemia, è stato un anno buono per l’occupazione. Come è possibile che l’occupazione cresca, la spesa per il soccorso ai poveri addirittura del 56% e quelli, anziché diminuire o sparire, aumentano del 78%? Era capitato che le modalità della spesa, basata su parametri, avevano portato (e porta) a voler rientrare fra quanti hanno diritto ai sussidi, finendo con il far crescere anziché diminuire il numero di poveri. All’evidenza una strada sbagliata, oltre che una insopportabile dilapidazione e induzione al lavoro nero, all’evasione fiscale e all’irregolarità.
La prima cosa che serve a chi è povero è sapere che, volendo, non resterà povero. Quel che più preme a un genitore povero è sapere che quella sua condizione non sarà ereditaria, non si riprodurrà sui figli. Sono questi gli argini affinché la povertà non divenga disperazione, tanto più ingiusta quanto più si trova dentro una società ricca. I soldi, quindi, devono andare non a finanziare il non lavoro, ma a favorire l’ingresso nel mondo del lavoro, con la formazione. Per i ragazzi, intanto, servono dosi massicce di scuola e meritocrazia, perché il successo e i soldi arridano, come stabilisce la Costituzione, ai “capaci e meritevoli”, non solo ai figli delle famiglie benestanti. Uno Stato che si occupa dei poveri agisce prima di tutto in queste direzioni.
C’è anche, però, chi ha bisogno di soccorso immediato e concreto. A questi non lo si fornisce cercandoli con i parametri, altrimenti s’incorre nell’assurdo prima visto. Se si vuole aiutare i poveri si deve conoscerli. E lo Stato non li conosce, se non in minima parte. C’è la rete del volontariato, il terzo settore, che, invece, li frequenta. E fra quelli che vanno a cercare un pasto sanno che ci sono anche genitori (padri) separati i cui parametri Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) non li descriverebbero come poveri. Usiamo la spesa per aiutare chi ha bisogno, passando da chi conosce i bisognosi, anziché sperperarla in burocrazie inutili. E, a proposito, manco esiste una banca dati unica per sapere chi prende sussidi da chi, così consentendo che esistano i poveri per professione. Questo conta, non le bandierine smandrappate di chi ha mente povera e ragiona poveramente per raccattare qualche voto. Che poi neanche arriva.
La Ragione