Povertà, quello che si coglie (e quello che non si coglie) dai dati Istat

Povertà, quello che si coglie (e quello che non si coglie) dai dati Istat

Lo strillo dei giornali è univoco: 5 milioni di poveri, mai così tanti dal 2005. Il governo ha colto gli ultimi dati Istat come conferma della necessità di varare, al più presto, il reddito di cittadinanza. Qualsiasi cosa effettivamente significhi.

Forse, però, vale la pena di leggere con più attenzione.

In condizioni di povertà assoluta (abbiamo già chiarito il significato di questo concetto) è l’8.4% della popolazione italiana. Con un netto (s)vantaggio del Sud. Se, però, ci si riferisce alle famiglie composte solo da italiani la povertà si ferma al 3.1 al Nord (crescente); al 3.3 al Centro (calante); e al 9.1 al Sud (crescente). Media nazionale: 5.1%. Che è tanto, ma non è l’8.4. Le medie relative alle famiglie composte da stranieri, regolarmente residenti in Italia, sono radicalmente diverse: 27.7 (Nord); 23.8 (Centro); 42.6 (Sud). Media nazionale: 29.2.[spacer height=”20px”]

Seconda condizione da tenere presente: la metà dei poveri assoluti ha fino a 34 anni. Gli anziani pensionati non si sono impoveriti, semmai il contrario, mentre la povertà cresce anche per gli anziani, ma quando dai singoli si passa a calcolare le famiglie. Segno che la loro pensione finanzia anche la vita di altri.

Se si suppone di affrontare il problema con i sussidi, quindi, si deve sapere che saranno diretti soprattutto verso i giovani e verso gli stranieri. Non ha molto senso, perché si tratta di persone che andrebbero messe a lavorare, non da sussidiare. Anzi, il sussidio può diventare volano di povertà: a Vibo Valentia il reddito annuo medio di chi lavora è di 11.800 euro, quello di chi è in pensione è di 14.425; al Nord il rapporto è inverso: 29.000 chi lavora e 21.000 i pensionati. Si può leggerlo con occhiali variamente colorati, ma è evidente che dove lavorare non conviene è difficile si crei nuova e più abbondante ricchezza.

Allora, anziché prendere questi dati e usarli per l’ennesimo piagnisteo, da mettere in conto alla spesa pubblica, si dovrebbe leggerli come denuncia dell’esclusione dal lavoro di intere generazioni.

Per invertire la rotta non servono nuove elemosine pubbliche, ma che la mano pubblica, burocratica, fiscale e previdenziale, non funzioni da disincentivo soffocante. Il dato di Vibo Valentia è solare: regge solo se i soldi li prendi a lavoratori di altre parti d’Italia, il che non è solo ingiusto, ma umiliante e generante miseria.

Se poi si guarda il fenomeno a livello europeo ci si rende conto che con la ripresa i poveri sono diminuiti, mentre da noi aumentati. La causa è interna, italioitaliana. Tanto poco lo si è capito che ci si ostina a riproporla e ingigantirla, anziché abbatterla.

DG, 27 giugno 2018

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