Processo liberale all’Unione europea

Processo liberale all’Unione europea

Il politicamente corretto non è divenuto senso comune, come forse alcuni suoi interpreti immaginavano o auspicavano, ma esso continua a celebrare i suoi fasti, e le sue follie, soprattutto nei paesi anglosassoni, in quei settori ove si dovrebbe elaborare la cultura dell’Occidente: dai campus universitari al mondo dei media (non solo e non tanto negli approfondimenti giornalistici ma anche nei prodotti di intrattenimento), dall’editoria all’intellettualità media e diffusa.

Nello stesso tempo, come ha segnalato qualche giorno fa Éric Zemmour su Le Figaro, alcuni settori della sinistra cominciano a far propria quella critica alla correctness che era stata quasi esclusivo appannaggio, fino a poco tempo fa, della destra. In Italia, se ne è avuta una prova con il numero speciale dedicato al tema dalla rivista MicroMega.

Non da sinistra è però venuto, sempre recentemente, quello che a me sembra il migliore tentativo fatto finora di sistematizzare e storicizzare il tema, e forse non solo in Italia, collegando cioè fra loro i vari aspetti in cui esso si è manifestato, e più in generale riconducendolo alle evoluzioni del pensiero progressista dopo la “crisi” relativistica e nichilistica subita dalla cultura europea fra Otto e Novecento.

Nel libro di Eugenio Capozzi a cui mi riferisco (Politicamente corretto. Storia di un’ideologia, Marsilio), il tema della crisi dell’Occidente, di cui il politically correct è contemporaneamente causa ed effetto, è ben presente, ma non è legato, per la natura stessa del libro, ad un elemento che è in genere poco considerato ma che a me appare fondamentale: la sempre più evidente incapacità di pensare in senso tragico la nostra esistenza o la vita umana. Di questa mancanza di senso del tragico, cioè dell’incomponibile e dell’inconciliabile, la cultura liberal o politicamente corretta è, a mio avviso, espressione significativa. Ed è su queste basi “filosofiche” che la critica al politicamente corretto andrebbe appoggiata per essere veramente profonda e radicale.

Cerco di spiegare in che senso, o di cosa si tratta. Con qualche esempio tratto dall’attualità. Parliamo di Europa. Che la costruzione europea sia in crisi, e che la sua crisi sia sistemica e non dovuta certo, come i nostri europeisti sembrano credere, ad una contingenza storica che presto passerà, l’affacciarsi cioè dei partiti cosiddetti “populisti”, a me sembra evidente.

La crisi, che nessun buon esito delle elezioni europee potrà coprire, dipende da molti fattori, ma principalmente dal fatto che, per creare l’Unione, si è creduto di poter fare a meno della politica, cioè di poter creare delle istituzioni tendenzialmente depoliticizzate. La crisi è venuta fuori nel momento in cui la politica, che è connaturata alla vita umana proprio in quanto tragica o conflittuale, ha presentato i propri conti: il “sovranismo” non è altro che questo. Ora, la depoliticizzazione può avvenire in due modi: riconducendo la politica, cioè il conflitto che è insito nelle relazioni umane, all’etica o a un diritto eticizzato, oppure riconducendola all’economia.

L’Unione europea ha tentato entrambe le vie, le ha integrate: da una parte leggi sempre più pervasive e dettagliate, e organismi sovranazionali non rappresentativi che si sono sovrapposti a quelli nazionali legittimamente eletti, hanno tolto spazio alla politica in nome di ideali etici astratti e non incarnati; dall’altra, si è pensato che la forza impersonale del mercato potesse garantire di per sé l’imparzialità delle relazioni negoziali umane.

La cultura liberal di sinistra e la cultura liberista di destra, il politically correct e il mercatismo astratto, le due ideologie che hanno dominato la fine del Novecento, hanno perciò finito per tendersi la mano, il tutto all’insegna di una impossibile neutralizzazione dei conflitti umani, cioè della politica. Gli organismi sovranazionali, fra cui l’Unione Europea, hanno rappresentato proprio l’impossibile tentativo di realizzare questa utopia. E si sono esplicate in una capillare opera di razionalizzazione e formalizzazione dei rapporti umani, radicalizzando una delle tendenze i fondo dell’età moderna.

Un processo non liberale, almeno nel senso classico del termine. Il liberalismo non si è proposto infatti storicamente come un tendenziale estirpatore del conflitto ma anzi come una tecnica per temperare i poteri contrapponendo ad essi altri poteri: il trionfo, non la morte della politica. Non è un caso che esso si sia incarnato, soprattutto nell’Ottocento, nella nazione, cioè in quel perimetro ideale ove la libertà è diventata concreta ed ha potuto manifestarsi, con tutte le imperfezioni del caso e la provvisorietà delle soluzioni.

E torniamo qui al sentimento tragico della vita, che è connaturato al liberalismo. La consapevolezza è che male e bene sono inestricabilmente intrecciati, che l’uno può essere linfa vitale per l’altro (che cosa sono le “conseguenze inintenzionali delle azioni umane se non questo?), che la vita è un palcoscenico ove tutto è legato e tutto si compone in una rappresentazione senza copione e senza risoluzione, ove nessuno ha la verità in tasca anche perché la verità è storica e vive nelle situazioni, ove tutti siamo contemporaneamente colpevoli e innocenti. La tragedia, appunto, come quella di Shakespeare, la quintessenza dell’Occidente: l’irrompere della vita nelle forme della regolamentazione astratta.

L’Occidente non è altro che questo, cioè che il politicamente corretto vuole sopprimere: il contraddittorio, la tensione, la non riducibilità, l’anima e il corpo che accampano entrambi le loro “ragioni”.

L’etica non può essere un astratto programma di studio, o un ordinamento comunitario, ma solo la sempre imperfetta e parziale messa in atto, attraverso il conflitto e la politica, della nostra libertà e responsabilità. Riaprire le porte alla politica può avvenire confusamente, e anche per certi aspetti pericolosamente, come sta avvenendo in questo momento, ma se ci teniamo allo spirito dell’Occidente, e alla libertà così come è venuta fuori in queste lande, al processo storico in atto non possiamo chiudere in faccia porte e finestre.

Corrado Ocone, startmag.it 13 gennaio 2019

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