Lasciamo stare per un attimo il discorso, che pure in altra sede andrebbe fatto, sul ruolo e le funzioni di una “Corte europea dei diritti umani” e soffermiamoci sul merito della condanna da essa emessa il 30 gennaio nei confronti della Lituania.
Lo Stato baltico è stato condannato, in nome della libertà di espressione, a risarcire un’azienda che era stata precedentemente multata per avere utilizzato simboli religiosi nelle sue pubblicità. In particolare, per avere giocato con le immagini di un uomo e una donna con l’aureola e con frasi tipo “Gesù, che pantaloni!” o “Cara Maria, che vestito!”.
Le autorità lituane erano intervenute contro l’azienda dopo una serie di denunce, motivando la condanna come un’offesa alla “morale pubblica”.
La Corte di Strasburgo ha invece ritenuto che le immagini incriminate “non sembrano essere gratuitamente offensive o profane” e “non incitano all’odio”. I togati criticano poi la motivazione addotta dai lituani: non si può infatti affermare, secondo Strasburgo, che la pubblicità in questione promuova “uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa” senza spiegare quale sia lo stile di vita da essa incoraggiato.
Ora, è proprio quest’ultima espressione che lascia un liberale alquanto perplesso.
Le domande che egli si pone sono queste: è compito dello Stato promuovere uno stile di vita piuttosto che un altro? Non dovrebbe piuttosto essere suo compito solo ed esclusivamente quello far rispettare le leggi garantendo a tutti la possibilità di esprimersi liberamente e far riferimento al proprio stile di vita con l’unico limite, appunto, dell’istigazione all’odio?
Può, detto altrimenti, esistere una “moralità pubblica”, cioè ufficiale e di Stato? E perché tener in più conto la sensibilità di una “persona religiosa” e non quella di una che non è credente? Volenti o nolenti, il patto che sorregge lo Stato moderno, laico e liberale, è proprio quello che prevede un “passo indietro” nella sfera pubblica, ma solo in essa, di chi ha forti credenze. Le quali hanno libertà di essere professate ma senza la pretesa di essere imposte agli altri.
Tale patto impone, in altre parole, la netta separazione fra politica e morale. Tenere fermo questo punto è davvero importante, se si vuole che gli incontri fra le culture, che la cosiddetta globalizzazione e le migrazioni ad essa connesse hanno intensificato, siano posti su basi valoriali per noi irrinunciabili.
Cosa succederebbe un domani se, per pura ipotesi, gli immigrati di religione islamica diventassero demograficamente maggioritari nelle nostre società e imponessero a tutti noi la loro “moralità pubblica”, cioè la loro concezione teocratica e non laica del potere politico? (ed è questo, detto fra parentesi, il motivo per cui, a mio avviso, la cittadinanza andrebbe legata alla cultura dell’aspirante cittadino e non alla sua presenza fisica per un tot numero di anni su un determinato territorio).
Andando poi nello specifico del caso trattato, anche se le autorità cattoliche lituane (che fanno il loro mestiere e sono abbastanza conservatrici) hanno affermato il contrario, io credo che, a parte tutto, un cristiano non possa sentirsi offeso dal gioco di immagini e parole della pubblicità sotto accusa.
E questo fa la particolarità del cristianesimo, che è una religione dello spirito e non della lettera o dei precetti. Anche se il giudizio dipende, appunto, dai casi particolari, può esserci molta più religiosità, per la nostra religione, in chi ha uno stile di vita secolarizzato che non in chi fariseicamente rispetta tutti i sacramenti a poi pecca in spirito e in azione.
D’altronde, non è un caso che la secolarizzazione, che ha un cuore cristiano, si sia imposta in questa e non in altre parti del mondo. Ma anche questo, è un altro discorso, che andrà fatto in altre occasioni.
Corrado Ocone, www.huffingtonpost.it 31 gennaio 2018