L’opinione pubblica può essere perdonata se non ha dato il giusto risalto all’innovativa proposta che il segretario del Pd ha fatto davanti alla platea dei giovani imprenditori qualche settimana fa. Se vinceremo le elezioni – ha preannunciato Enrico Letta– faremo approvare una legge che impone la presenza di giovani sotto i 40 anni nei consigli di amministrazione imitando le quote rosa a favore delle donne.
Chi era (ed è rimasto, con sprezzo del pericolo) contrario alle quote rosa, fece due previsioni. La prima è che, nonostante la legge Golfo-Mosca fosse presentata come uno stimolo provvisorio che sarebbe durato solo nove anni per incoraggiare le società quotate ad aprire al gentil sesso scavalcando i pregiudizi culturali, in realtà in Italia nulla è più permanente di ciò che è provvisorio. Ipotesi sbagliata per difetto, giacché non solo l’obbligo di quota rosa è stato confermato, ma la percentuale del “genere meno rappresentato” è passata dal 33% al 40%. La seconda è che si sarebbe innescata una corsa alla rappresentatività, creando cda arlecchino con spazio ai giovani, alle minoranze etniche, religiose, con identità sessuali non tradizionali ed ogni altro gruppo del nostro moderno tribalismo che considera il merito un’anticaglia. Hic Letta, hic salta.
Andiamo con ordine. Da tempo aleggia una certa insofferenza al concetto di meritocrazia, intendendosi con tale locuzione quel sistema dove chi (in senso lato) comanda, lo fa in base ai suoi talenti e non per privilegi derivanti dalla sua nascita (per aristocrazia di sangue o di censo) oppure da lealtà ai potenti di turno o per affiliazione religiosa o politica, genere, razza, preferenze sessuali. Questo ideale nel XIX e XX secolo diventò patrimonio della sinistra riformista (la Fabian Society inglese, ad esempio) perché, contro i benefici della ricchezza o del titolo nobiliare ereditati, i socialisti propugnavano l’aspirazione di chi, pur provenendo da ambienti disagiati, volesse diventare medico, professore, avvocato, alto burocrate, architetto, statista.
A partire dagli anni 30 del secolo scorso e sino ai giorni nostri, le critiche si sono moltiplicate, sia da destra che da sinistra. I populisti alla Trump accusano le élite di imporre valori culturali contrari al buon senso e alla tradizione e di favorire banche e grandi gruppi tecnologici a spese del sano lavoratore o del piccolo imprenditore. È più un sentimento rabbioso contro l’arroganza snob delle upper class che una vera rivolta anti merito. A sinistra le cose sono più articolate: negli ultimi anni si è verificato infatti un matrimonio tra conoscenza e denaro senza precedenti nella storia umana. Peccato che l’accesso alle università e alle scuole più prestigiose sia spesso riservato ai figli di benestanti e che, secondo i critici, l’eguaglianza delle opportunità diventi una trappola utilizzata per reprimere le proteste di chi non ce la fa («È solo colpa tua, non ti impegni o non ci arrivi»).
È una visione molto americanocentrica che invero si intreccia con le accuse alla società Usa di essere strutturalmente razzista. Il sogno di Martin Luther King, di un Paese che premi chi merita al di là del colore della pelle deve perciò essere sostituito da soluzioni collettive che privilegino gruppi svantaggiati: neri, donne, Lgbt, ispanici e così via.
Naturalmente, in ogni Paese è possibile trovare gruppi storicamente sfavoriti, quindi questo ragionamento può benissimo tendere all’universalismo.
In realtà, salvo coloro i quali vogliono una società comunista in cui anche i punti di arrivo siano uguali, le critiche sembrano semmai poter essere interpretate nel senso che non c’è ancora abbastanza meritocrazia, perché l’ambiente familiare di provenienza conta tuttora. Ma se eliminiamo il concetto in sé è difficile che a dare le carte non rimangano le classi dominanti del momento, che siano le burocrazie o le tecnocrazie o le plutocrazie.
Il problema è che spesso i rimedi che vengono proposti o attuati dai pensatori progressisti o sono bislacchi (il sorteggio per l’ammissione ad Harvard) o hanno effetti opposti. L’appiattimento nella scuola, sia a livello del personale scolastico, che dell’ impegnatività degli studi, in Italia come negli Usa e in Gran Bretagna ha fatto sì che i figli delle élite abbiano frequentato Eton o le scuole migliori, pagandosi insegnanti privati, viaggi all’estero e corsi di ogni genere, lasciando indietro i ragazzi meno abbienti che avrebbero dovuto contare esclusivamente su una scuola competitiva e in grado di dare offerte formative adeguate.
Se invece si vuol dire che chi ha successo grazie al merito debba poi condividere in parte la sua ricompensa con tutti gli altri, allora stiamo semplicemente discutendo di quanto e come debba essere redistributivo il Welfare State caratteristico di tutte le società occidentali. Infine, se anche gli “ingegneri sociali” che piacciono alla sinistra non fossero selezionati in base al merito, che razza di pasticci farebbero nel tentare di raddrizzare il legno storto dell’umanità ? Per parafrasare la frase di Churchill, insomma, la meritocrazia è il peggior modo di organizzare la società, eccettuati tutti gli altri.