Bisogna tornare ai lontani tempi del 1956, e alla crisi di Suez, per ritrovare analogo impasse di due tra le principali potenze del continente europeo, il Regno Unito e la Francia. Solo che la crisi, esiziale al sistema politico francese di allora, originò dalla politica estera: francesi e inglesi all’interno se la godevano alla grande, nel pieno della espansione economica. Oggi invece la crisi è il prodotto del rancore, della rabbia e della proteste, tutte legittime, di inglesi e francesi. Allora era una crisi interna alla élite politica, oggi essa parte dal popolo: e le élite politiche non sembrano in grado di risolverla. Sono ovviamente due casi molto diversi.
Nel decidere di posticipare il voto sull’accordo della Brexit, Theresa May, umiliandosi, ha mostrato non solo la propria incapacità di leadership: ha dispiegato tutta la crisi del parlamento inglese, che delle istituzioni rappresentative d’oltremanica è il centro almeno dal XVII secolo. Ed è crisi anche dei due partiti che, dal 1945, organizzano il funzionamento della democrazia: i conservatori, ormai quasi spappolati, ma anche i laburisti, in cui una consistente quota di contrari alla Brexit convive con la linea ambigua del segretario Corbyn. La paralisi del partito di maggioranza produce quella del partito di opposizione, che a sua volta incide sul primo.
Apparentemente del tutto diversa la situazione in Francia. Lì i vecchi partiti sono quasi spariti; ma quello nuovo di governo, la République en Marche, è un contenitore vuoto, del tutto assente nel Paese. E anche il presidente è, o dovrebbe essere, del tutto nuovo: li sistema però è rimasto quello della Quinta repubblica che, se ha l’indicibile vantaggio di assicurare la decisionalità, delude sempre in fatto di rappresentanza. Nel caso inglese il divario tra élite politiche e popolo è evidente nel fatto che la classe dirigente è tendenzialmente pro europea mentre la maggioranza del popolo ha votato per l’uscita. Nel caso francese invece il divario tra élite e popolo è accentuato da Macron, che si è illuso di poter sfruttare tutto l’ultra decisionistico sistema, senza dialogare con quella parte del Paese che non lo aveva scelto, o lo aveva preferito solo come male minore.
Entrambi, May e Macron, hanno peccato per assenza di coraggio. La prima non ha avuto la forza di intraprendere una strada chiara, quella della Brexit dura o quella, opposta, dell’ammissione dell’impossibilità di uscire dall’Europa. Mentre Macron ha mancato di coraggio nel non fuoriuscire dalla sua ristretta base sociologica e geografica. E non sembra che le misure annunciate nell’elocuzione televisiva di ieri possano fare molto. Certo, poi i due casi sono accomunati anche da un altro elemento; la Ue. Mentre il Regno Unito si è scontrato contro la sua struttura, estremamente resistente e pervasiva, i problemi della Francia, cominciati non con Macron ma con Mitterrand, derivano dall’impossibilità di reggere i parametri rigidi di ispirazione tedesca che essa ha deciso di accettare. Se volesse completamente risolvere la crisi francese, per paradosso, Macron dovrebbe annunciare l’uscita del Paese dall’Eurozona.
E noi, che fino a qualche giorno fa venivamo additati come i pestilenziali, i reietti, come se negli altri Paesi andasse tutto bene? C’è una parola tedesca, intraducibile, Schaudenfreude, cioè godere della disgrazie altrui. Ci può stare, se ci ricordiamo soprattutto le gentili parole di Macron, Le Maire e via dicendo. Ma sarebbe un atteggiamento sbagliato e poco produttivo.
Il nostro problema non sta nel divario tra élite e popolo, meno ampio da noi che nel Regno Unito e in Francia. Anche se non crediamo, come ha detto Di Maio ieri, che da noi il popolo abbia preso il potere; anche perché, pure nei regimi rivoluzionari, sono sempre le élite a comandare (anzi, nei regimi rivoluzionari molto di più). Semmai il problema sta nel rinnovamento delle élite, un processo a cui il 4 marzo ha dato una spinta, ma che richiede tempo e dedizione. Se abbiamo un pieno di rappresentanza, scontiamo però un vuoto di decisionalità. E non solo perché la Repubblica parlamentare italiana è stata costruita nel 1948 per non decidere. Lo scarso tasso di decisionalità è frutto di due progetti di nuova rappresentanza del popolo con obiettivi poco convergenti tra loro, quello della Lega e quello dei 5 Stelle, e anche con connotazioni geografiche diverse, più accentuato uno al Nord, più diffuso l’altro nel Sud. E anche noi, naturalmente, come Macron e come May, siamo frenati dalla gabbia d’acciaio europea. Che, prediligendo la tecnocrazia e la burocrazia sulla politica, è responsabile del deperimento della classe politica e della penuria di leader. Ma se non abbiamo più i Churchill, i De Gasperi, i De Gaulle, le Thatcher e i Craxi, dovremo comunque trovare un modo per risolvere la crisi della rappresentanza. Altrimenti sarà, e per davvero, a rischio la democrazia.
Marco Gervasoni, Il Messaggero 11 dicembre 2018