Le urne del 4 dicembre hanno restituito due risultati positivi. Più qualche dettaglio, su cui ragionare.
Il primo dato positivo arriva dall’Austria. E si deve conoscerlo, per apprezzarlo. Non solo Alexander Van Der Bellen è stato confermato presidente, così evitando il non confortante cambio della guardia, a pochi mesi dalla prima elezione (poi considerata irregolare). E non solo si tratta di un europeista.
La cosa più significativa credo sia avvenuta allo sconfitto, quel Norbert Hofer, non impropriamente descritto con colori piuttosto forti, capace di pigiare i tasti dell’antieuropeismo e dell’ostilità a qualsiasi forma di immigrazione. Ebbene, proprio Hofer ha usato le ultime battute della campagna elettorale austriaca per precisare che lui non intendeva affatto portare il suo Paese fuori dall’Unione europea, semmai far valere in pieno la devolution.
Così come, in tema di immigrazione, ha illustrato una proposta che mi sentirei di condividere, a grandi linee, visto che ricalca quanto qui si sostiene da qualche anno: far operare autorità comuni fuori dal territorio Ue, in modo da distinguere chi deve, chi può e chi non deve e non può entrare.
Il che contiene due cose importanti: a. la necessità di autorità comuni; b. l’ovvio riconoscimento che chi ha diritto e chi conviene far entrare entri. Hofer ha perso, sicché si potrebbe disinteressarsene, ma resta significativo che abbia provato a correggere toni e temi di tante parole già da lui usate, nell’evidente consapevolezza che con quelle non avrebbe potuto vincere.
Fra qualche mese Marine Le Pen non siederà all’Eliseo e Angela Merkel sarà ancora cancelliere. L’antieuropeismo un tanto al chilo regredisce, s’appalesa per quel che è, raccoglie ancora umori esistenti, ma non diventa forza politica stabile. Anche nel Regno Unito, alle prime elezioni suppletive disponibili, un seggio tradizionalmente conservatore è andato ai liberaldemocratici, per il solo fatto che il vecchio candidato ricalcava le indecisioni e le parole di Brexit, mentre la vincitrice vi si opponeva.
Il secondo dato, relativo all’Italia, è l’affluenza alle urne referendarie, che ha superato il 65% (e ora che si è votato si metta mano agli italiani all’estero, la cui condizione elettorale è divenuta grottesca). La voglia di partecipare e votare è un altro dato positivo. Forse ha contato il ritenere rilevante la scelta e incisivo il proprio voto. Hanno votato molti cittadini che, in altre occasioni, sono rimasti a casa, evidentemente privi della sensazione che avesse un senso uscirne per recarsi al seggio.
C’è bisogno di andare al ritmo del resto d’Europa, non di avversarla per non fare i conti con i propri errori.
Veniamo ai dettagli, relativi alla netta prevalenza dei No. Qui mi limito ad alcune riflessioni, visto che la partita si è appena aperta.
1. Accostare il risultato italiano a quello di Brexit può far piacere ai propagandisti incoscienti, che siano festanti o dolenti, che cerchino una proiezione o una scusa continentali. È stato il governo Renzi a esasperare i rapporti con la Commissione, dileggiandola in ogni modo. Si sono chiesti margini di bilancio per regalie propizianti il successo elettorale, così, certo, non accrescendo la nostra affidabilità (e perdendo, per giunta). L’Italia è un Paese fondatore, cosa che fece con la Costituzione di sessanta anni addietro. La campagna referendaria è finita, sarebbe bene rifluissero anche gli esaltati, militanti in entrambe i fronti.
2. Si è votato per un referendum confermativo, non per elezioni politiche. Il Parlamento è composto ora come lo era prima. Il Partito democratico ha la maggioranza assoluta dei deputati. Dire che tocca agli altri fare proposte non ha senso. È’ solo un artificio retorico, che si infrangerà al Quirinale, destinato a far vedere quanto disomogeneo sia il fronte del No. Ma non c’è bisogno di dimostrarlo: è evidente. Chi mai ha sostenuto che debba essere una maggioranza politica? Questa è, ancora, propaganda fuori tempo massimo. La maggioranza politica è altra. Se non c’è più è segno che il Pd non va considerato come un gruppo unico. Non credo il loro masochismo sia arrivato a questo punto.
3. Certo, in condizioni normali non resterebbe che convocare le elezioni anticipate. Ma non si può. Questo è l’ulteriore frutto di quel che avvertimmo assai per tempo: modificare la legge elettorale prima di avere terminato l’iter di riforma costituzionale era un azzardo. Non solo lo si è fatto, ma senza neanche avere una maggioranza, sul punto, tanto che anche membri del governo erano contrari e furono piegati dalla questione di fiducia. Ora, però, prima di votare occorre dotarsi di una legge. Quindi non si può votare subito. L’Italicum, del resto, se non sarà superato dal Parlamento sarà demolito dalla Corte costituzionale. Perché è incostituzionale.
4. Ora siamo nelle mani di Grillo? Il solo modo per finirci era tenersi lo schema che è stato battuto al referendum. Era il solo modo. Non c’è più, mi pare un fatto positivo. Allora in quelle di Slavini? Non ha i voti sufficienti. Quello, semmai, è un problema del centro destra, che si vedrà subito nel mettere mano al sistema elettorale: fin quando una parte di quel mondo sosterrà il proporzionale, variamente declinato, è segno che non intende cedere la guida ai leghisti. Sicché in quelle mani non ci si finisce per mancanza di voti utili.
Ma, a parte tutto ciò, è ora di finirla di far finta di essere già divenuti una Repubblica caudillistica, dove due per tre ti senti chiedere: a chi ci affidiamo? chi comanderà? Basta: non è il “chi” è il “che”, a contare. La Repubblica dei bonus a nulla scassa i propri conti e perde nelle urne. L’inseguire l’antipolitica dicendo cose miserevoli sulla diminuzione di parlamentari e costi è suicida, nonché perdente nelle urne.
Il fare il verso agli antieuropeisti, dando del burocrate alle istituzioni Ue (che essendo popolate da politici, al contrario, invitarono gli italiani a votare Sì, anche per potere presentare il conto ai beneficiari dell’appoggio), è non solo grave, ma perdente. Basta chiedersi “chi”. Non abbiamo alcun bisogno di caudilli egocentrici. Il lavoro va fatto sui conti, non per nuove regalie, ma per alleggerire un motore produttivo che ancora funziona, benché rattrappito.
Per riuscirci c’è bisogno di personale politico che usi il linguaggio del realismo, non la blandizie dell’elettoralismo; c’è bisogno di andare al ritmo del resto d’Europa, non di avversarla per non fare i conti con i propri errori. Non solo con quel linguaggio e con quei contenuti si possono vincere elezioni che non siano ridotte a riffa paesana, ma ci si può rendere utili, dopo averle celebrate.
Abbiamo sprecato un sacco di tempo, meglio non buttarne dell’altro.
Davide Giacalone, Il Giornale 5 dicembre 2016