Il pasticcio catalano, impastando la demagogia indipendentista e la spropositata reazione del governo, pone due problemi a tutti: la gestione dei separatismi e delle consultazioni popolari. La loro portata è generale, non solo ispanica.
Anticipo la conclusione: con il diffondersi dell’urnolatria, nella sciocca supposizione che tutto possa essere governato con l’urnocrazia, la democrazia non trionfa, ma tonfa.
Tre brevi premesse.
1. I separatismi, in Unione europea, sono europeisti. Quei separatismi sono l’opposto dei nazionalismi sovranisti. La cosa curiosa, in Italia, è che una forza nata come separatista, evolutasi in federalista, la Lega, è poi divenuta nazionalista. Da un opposto all’altro.
I separatismi sono europeisti ed euristi (cultori dell’euro) perché solo dentro un più ampio e omogeneo contenitore possono sostenere le loro posizioni. Fuori da quello sarebbero sciocchezze allo stato puro.
2. Chi punta alle urne referendarie, per far valere la secessione, abbraccia la tesi secondo cui se c’è un pronunciamento popolare, essendo il popolo sovrano, nulla può fermare un tale trionfo della democrazia.
Confondere le urne con la democrazia è una colpevole leggerezza. Si votava in regimi che non erano affatto democratici, come le repubbliche socialiste europee, poi a furor di popolo abbattute non appena l’impero sovietico crollò.
Il voto e la democrazia vanno a braccetto quando si rispettano le regole del diritto.
Ad esempio: è sano e democratico l’articolo 139 della nostra Costituzione, che esclude si possa cambiare la natura repubblicana del nostro Stato. E se il popolo volesse la monarchia? Dovrebbe organizzare il colpo di Stato, perché la Costituzione esclude (giustamente) tale possibilità.
3. Tutti i separatismi hanno appigli nella storia. Quello catalano fa appello al 1714. Ma da noi, punto da tenere a mente per il proseguo, il Regno delle due Sicilie è finito dopo. Roma divenne capitale dopo essere stata espugnata in armi, nove anni dopo l’Unità d’Italia (1861). Se si prende questo andazzo si può sperare nel ritorno di Napoleone, sempre che non risorga prima Carlo V (il tema della Scozia è diverso, perché è Nazione costitutiva del Regno Unito).
Con queste premesse, si pongono due problemi: l’atteggiamento delle istituzioni europee e la legittimità dei referendum.
A. Come al solito, non sapendo che altro dire, anche in occasione del guaio catalano s’è sentito: le istituzioni europee (solitamente dicono “l’Europa”, segno già evidente di confusione mentale) sono state latitanti.
Non è vero, perché, in casi diversi, hanno ripetuto: l’essere oggi parte dell’Unione europea non comporta, in caso di separazione, un diritto a rimanerne componenti.
È una posizione molto forte, proprio perché i separatismi seri sono tutti europeisti. Tale posizione s’è indebolita nel caso della Scozia, ma perché è l’unità regnante di cui fanno parte che ha deciso di uscire dall’Ue.
Posto che i separatismi ce l’hanno principalmente, per non dire esclusivamente, con i governi nazionali, dire o fare qualche cosa di più significherebbe mettere i piedi nel piatto degli affari interni. Considerato che a lamentarsi sono quelli che ritengono l’Ue già troppo invadente, ecco un ulteriore segno di rarefazione del raziocinio.
B. A stabilire la legittimità dei referendum sono le relative legislazioni nazionali. Quelli in programma in Lombardia e Veneto, ad esempio, sono regolari e previsti dalla Costituzione (sempre dalla pessima riforma del 2001, voluta da una sinistra cieca e irresponsabile).
Comunque non solo sono consultivi, ma presuppongono la conferma dell’Unità nazionale. In pratica Lombardia e Veneto vorrebbero diventare come la Sicilia. Auguri. Ma mettiamo di volere superare l’ostacolo della legittimità interna, che in Catalogna era certa illegittimità.
C’è una legittimità ideale? Manca.
Primo: come si stabilisce chi ha il diritto di voto? Solo quelli che vogliono andare via, o anche gli altri? Roma potrebbe ricacciare i bersaglieri e, con il sostegno dei romani, chiedere d’essere ricompresa nello Stato Vaticano?
Voterebbero solo i romani, o anche gli italiani che hanno in Roma la capitale?
Secondo: quale è il limite spaziale per organizzare la consultazione? Regionale, provinciale, comunale, di quartiere, d’isolato, di condominio? Nella storia si possono trovare appigli per tutte queste possibilità. Chi stabilisce dove ci si ferma?
Terzo: se il popolo è sovrano nel disporre di volere andare via è sovrano anche nel cacciare. Si potrebbe organizzare un referendum contro Roma capitale, invitando gli italiani a votare affinché l’Urbe sia posta fuori dalla Repubblica e riconsegnata al papa? Sono solo i siciliani a potere votare per la loro indipendenza, o anche gli italiani per liberarsi della Trinacria? Sempre sovranità del popolo sarebbe.
Starete pensando: questo è pazzo. Può darsi, ma forse è folle supporre che votare basti a dire che sovranità e democrazia trionfino.
Il culto dell’urna, l’urnolatria, il supporre che votando possano affrontarsi questi problemi, l’urnocrazia, sono malattie dell’animo democratico. Covanti fra gente che s’è dimenticata cos’è la democrazia, avendola ricevuta in dono dalla storia e non avendo mai speso non dico una lacrima, ma una goccia di sudore, non dico per difenderla, ma anche solo per capirla.
Davide Giacalone, 2 ottobre 2017