Il giurista ed ex giudice costituzionale: «Il voto non è lo strumento più adatto ma può sollecitare un Parlamento che non riesce a decidere»
ROMA. Al professor Sabino Cassese, eminente giurista ed ex giudice costituzionale, si addice il ruolo del fustigatore. Il suo ultimo libro «Il governo dei giudici» (Laterza) segnala che la grave crisi della giustizia è innanzitutto una divaricazione fortissima tra domanda e risposta del sistema. E i magistrati italiani, secondo lui, non sono affatto esenti da errori. Perciò Cassese è pronto a rovesciare ogni tavolo. «Il referendum – dice – è uno strumento poco adatto alla riforma della giustizia, ma può diventare un mezzo di sollecitazione».
Intanto, professore, i tempi del processo civile si sono allungati ancor di più. Eppure la pandemia c’è stata per tutti. Come se lo spiega?
«I motivi sono numerosi. Innanzitutto, c’è una legislazione che non considera i tempi della giustizia e ignora che una giustizia in ritardo non è giusta. In secondo luogo, vi è un numero di eccessivo di avvocati: l’Italia ha 20 milioni di abitanti in meno della Germania e 100 mila avvocati in più. In terzo luogo, vi è l’organizzazione rudimentale del processo, a cui si sta ponendo mano con il cosiddetto ufficio del processo. Infine, c’è la completa disattenzione, da parte della magistratura, dei tempi della giustizia».
Lei scrive che, anche in Italia, la giustizia acquista sempre maggior peso, solo che da noi il sistema non riesce a stare al passo con questo ruolo crescente. Colpa dei magistrati o colpa del sistema?
«La macchina della giustizia è così complessa e le disfunzioni sono tante, che stabilire imputazioni e attribuire colpe è molto difficile. Vi è un insieme di concause che producono l’attuale situazione, a partire dalla antiquata distribuzione dei tribunali sul territorio fino alla irrazionale assegnazione dei magistrati ai tribunali, passando per la quasi completa assenza di attenzione per gli aspetti che riguardano i tempi e gli impatti delle decisioni sulla domanda di giustizia».
Ritiene che le riforme Cartabia del penale e del civile riusciranno a farci invertire la china?
«Non credo che risolveranno i problemi, ma credo che vadano nella direzione giusta. L’idea di fondo che la giustizia sia un organismo della cui organizzazione, della cui efficienza, delle cui performance ci si deve interessare, costituisce il punto d’avvio di ogni possibile riforma della giustizia. Purtroppo, tra i magistrati è diffusa un’idea diversa della giustizia, atemporale, incapace di misurare se stessa e i propri effetti, non correlata con la domanda sociale».
Lo sciopero dei magistrati non è andato bene.
«Ho già detto, prima dello svolgimento dello sciopero, che si trattava di un atto suicida. I risultati hanno confermato il giudizio. La motivazione ufficiale era: vogliamo essere sentiti. Di fatto, la motivazione era un’altra: vogliamo decidere noi».
Lei denuncia una «continuità» tra alcune procure, una parte dell’informazione, e pezzi della politica. Ciò creerebbe un vulnus quantomeno culturale nel corpo stesso della magistratura. Se questa è la diagnosi, che cosa pensa del quesito referendario per la separazione assoluta delle funzioni tra inquirente e giudicante?
«Ritengo che sia un dovere di tutti i cittadini partecipare ai referendum ed esprimersi. Ritengo, in secondo luogo, che bisognerà votare a favore di quei quesiti che affrontano problemi che non saranno stati risolti dal Senato nell’ultimo passaggio della riforma Cartabia. Il referendum è uno strumento poco adatto alla riforma della giustizia, ma può diventare un mezzo di sollecitazione di un Parlamento che non riesce a decidere. Non credo che la separazione delle carriere sia risolutiva, ma ha acquisito sia nella percezione pubblica, sia nel modo in cui viene considerata dal corpo della magistratura, un significato tale per cui può servire da stimolo per i magistrati assegnati alle funzioni requirenti e inquirenti al rispetto di quell’articolo della Costituzione che prescrive la riservatezza dell’accusa. Detto questo, ritengo che si tratta di due mestieri diversi e che sarà bene reclutare le persone chiamate svolgerli con criteri diversi».
Sugli altri quesiti: quale la sua posizione sul quesito che limita la carcerazione preventiva? E sull’abrogazione della legge Severino, nella parte che colpisce gli amministratori in presenza di sentenze non definitive? Sulla valutazione estesa agli avvocati e professori universitari nei giudizi di professionalità per i magistrati (idea recepita parzialmente anche questa nella riforma in itinere)?
«Ripeto: se il Parlamento non decide per tempo, sarà giocoforza rispondere positivamente ai quesiti referendari».
Il tema del Csm è ovviamente centrale in ogni disegno di riforma. Il quesito referendario elimina la raccolta di firme per una candidatura. Il problema è affrontato in maniera simile dal ddl in discussione, ma si intende cambiare anche la legge elettorale dei giudici. Lei pensa che si arriverebbe sul serio a limitare le degenerazioni del correntismo, oppure auspica un intervento più radicale?
«Certamente il problema non sarà risolto. Tuttavia ci si sarà avviati verso una soluzione, da tanto tempo attesa. Per questo motivo, anche i primi passi vanno salutati con favore. Il Csm vedrà la soluzione dei suoi problemi quando la smetterà di ritenersi organo di autogoverno e comincerà a svolgere davvero le funzioni che ad esso assegna la Costituzione. Ben due volte, all’articolo 87 e all’articolo 104, la Costituzione dispone che il presidente della Repubblica presiede il Consiglio superiore della magistratura. L’articolo 105 definisce chiaramente i compiti del Consiglio: «Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti nei riguardi dei magistrati». Solo queste sono le funzioni e vanno svolte secondo i criteri dettati dalla legge».