Le cose vanno bene. Il ritmo di crescita della ricchezza prodotta in Italia sarà superiore alla media europea. Da ultimo è stato l’Ocse a rivedere la previsione: da un +0,6% a un +1,2%. Un bel raddoppio. E allora, sentite, non sarà meglio farla finita con la gnagnera del Pnrr, un po’ prendere atto e un po’ festeggiare che non se ne farà niente, liberarsi delle pretese e dei controlli e tirare dritto per i fatti nostri? Tanto s’è capito che le cose non andranno come sarebbero dovute andare. Ci sono ragioni decisive per cui la risposta a questa domanda è non soltanto «No», ma oscilla fra «Sei scemo» e «Sei matto».
Veniamo da molti anni in cui siamo cresciuti assai meno della media europea, talché il ritardo accumulato è forte. Le cause di questo respiro troppo corto sono molteplici, ma fra queste spiccano: la bassa percentuale di popolazione attiva al lavoro; la cattiva qualificazione della risorsa umana (cattiva scuola); la scarsa propensione all’innovazione tecnologica, con conseguente zoppicare della produttività; pubblica amministrazione che ostacola e rallenta, quando non impantana; impressionanti dislivelli territoriali, senza che le zone meno sviluppate trovino slancio per crescere, dilagando evasione fiscale e previdenziale, il che induce ulteriore regresso, anche civile. Possiamo ben parlare di giovani splendidamente laureati e fabbriche all’avanguardia, ma la musica complessiva è quella cacofonia, non riaccordata negli ultimi tre anni.
A favorirci sono stati la crescita dei mercati internazionali, dopo la pandemia, che ha spinto i nostri (straordinari) campioni delle esportazioni; la ripresa del mercato interno; la fiducia generata dal non vedere soltanto nero nel futuro e il moltiplicarsi di turisti, con annessa crescita (mai abbastanza) dei servizi. È cresciuto il Pil, ma è cresciuta anche l’occupazione. Bene. Ma basterà che l’orizzonte si scurisca e ci vorrà un attimo a tornare in coda e in ritardo.
Perché dovrebbe scurirsi? La Banca centrale europea ha alzato i tassi d’interesse. Lo ha fatto meno dell’omologa statunitense, ma li ha alzati. Una tale misura serve a far scendere la liquidità in circolazione e a raffreddare il rischio dell’esondazione inflattiva. Dall’altra parte ha un prezzo sul fronte della crescita: non a caso l’Associazione bancaria italiana (che teoricamente ci guadagna) teme che non pochi clienti imprenditoriali non reggano e divengano insolventi. Comunque è stato fatto. Contemporaneamente sono crollati i prezzi delle materie prime energetiche, cui era stata data la responsabilità dell’inflazione. E… purtroppo l’inflazione è scesa troppo poco, dimostrando d’essere alimentata dall’interno (ad esempio speculando sul rialzo dei prezzi e non facendoli scendere al calare dei costi). Ciò porta i tassi a crescere ancora. Più lentamente, ma cresceranno.
Ed eccoci al punto: se un Paese patologicamente indebitato – nel mentre festeggia il successo della vendita di titoli del debito, che costano molto ai contribuenti e rendono non abbastanza a chi li acquista – perde l’occasione di fondi europei per un terzo regalati e due terzi a tasso d’interesse inferiore a quello di mercato, non è che torna dov’era prima ma scivola più indietro. Perché dimostra che non sarà in grado di riassorbire gli squilibri e le insufficienze che ne rallentavano la crescita. Pur esistendo i campioni del Made in Italy.
A quel punto la politica tornerà alla tribale divisione fra chi difende le rendite esistenti (comprese quelle che alimenteranno l’inflazione con il caro ombrelloni o fanno sì che non si trovi un taxi) e chi si ergerà a difensore dei redditi fissi erosi dall’inflazione, reclamando più debito per compensare. Come il drogato in crisi d’astinenza, che non cerca di cambiare vita ma va a caccia di droga. Gli uni e gli altri alla ricerca di un colpevole con cui distrarre dalle proprie responsabilità.
Per questo la risposta all’iniziale domanda è «No»: senza maggiore crescita, senza la capacità di ricrescere su quanto si è cresciuti in questi tre anni, non si galleggia ma si vomita per gli sbattimenti.