Una maggioranza s’insedia, un nuovo capo politico traccia per sé e la propria parte un tragitto di lungo futuro, proponendo di modificare la Costituzione. Non è la prima volta che capita. Non si può dire che porti fortuna.
A parte gli aggiustamenti e le integrazioni, due sono state le riforme costituzionali che sono giunte in porto: quella del 2001, che ha rivisto il Titolo V, e quella del 2019, che ha tagliato il numero dei parlamentari. La prima voluta con prepotenza dalla sinistra, la seconda avviata da Cinque Stelle e Lega, poi votata da quasi tutti. Due porcherie. Due premesse per le sconfitte elettorali. Al di là della malasorte, dietro i tentativi di riforma – compreso quello odierno – si cela un equivoco.
Dopo l’avventura distruttiva delle dittature, Germania (divisa) e Italia ricostruirono le loro democrazie con un ordito costituzionale che vedeva governi politicamente forti e istituzionalmente deboli. Comprensibile, visto il disastro e il disonore portato da uomini e regimi che si volevano istituzionalmente fortissimi. L’equivoco italiano consiste nella credenza superstiziosa che alla progressiva debolezza politica dei governi, resa enorme dall’avere voluto un sistema elettorale che premia le false coalizioni – di destra o di sinistra, non cambia – si possa rimediare dando loro forza istituzionale. Non funziona e non funzionerà mai.
Il tema non è quello del presidenzialismo, che alla Costituente fu sostenuto da forze della sinistra democratica (come il Partito d’Azione) e da chi antivide i rischi di quella che Maranini chiamò «partitocrazia». È un sistema più che legittimo, ma non consegna forza ai deboli. Non ha nulla a che vedere con i dispotismi, ma è il contrario dei personalismi. Può funzionare se si accompagna a un sistema elettorale maggioritario (il solo esempio europeo efficace è quello semipresidenziale francese, che utilizza il ballottaggio a doppio turno), che non serve a rendere forti le maggioranze ma a far governare la più forte delle minoranze. Se una parte politica è maggioranza assoluta può ben legiferare e governare con qualsiasi sistema. Il maggioritario serve quando non lo è. Il che comporta, però, il riconoscimento reciproco delle forze politiche, talché la vittoria di una non sia vissuta come la fine del sistema democratico. Guardatevi in giro e dite se è questa la condizione che ci circonda. Non da oggi, da decenni.
Nelle democrazie governare non è mai sinonimo di comandare. La democrazia è faticosa, comporta la continua costruzione del consenso nel mentre conserva come prezioso e indispensabile il dissenso. Nello stesso esempio francese, del resto, il presidente eletto a suffragio universale (dalla più forte minoranza, non dalla maggioranza) può essere da quello stesso suffragio battuto. A Macron è successo poche settimane dopo la rielezione.
Cambiare la Costituzione è possibile, è previsto, lo si è fatto. Nulla di scandaloso. Farlo dialogando con tutte le forze politiche, come Meloni intende fare, è saggio. Parlare fin da ora del referendum è stolto. Ma se il governo italiano è politicamente debole, perché frutto di minoranze disomogenee che diventano maggioranze parlamentari in modo artificiale e artefatto, non c’è verso alcuno di renderlo più solido. Semmai più rigido, propiziando il successivo spezzarsi. L’Italia funziona male non perché la democrazia sia faticosa e il parlamentarismo preveda l’arte del compromesso, ma perché le forze politiche preferiscono il compromesso al ribasso, la demagogia e il trasformismo in quanto evitano le sfide. Puoi pure eleggere un monarca (dopo Carlo III la voglia passa anche ai monarchici), ma il Paese resta fermo perché impastoiato nelle mancate riforme: dalla burocrazia alla concorrenza, dalla scuola alla giustizia.
Questo è l’equivoco. Al punto che si ha l’impressione, oggi come ieri, che parlare di riforme istituzionali serva, più che altro, a non parlare del resto. Riformare la Costituzione senza ri-formare la politica è un’illusione.