C’è, per dirla con Giuseppe Prezzolini, l’Italia dei furbi: abbiamo fatto man bassa dei fondi disponibili più di ogni altro Paese europeo, incuranti del fatto che buona parte di essi erano prestiti e non regalie. E c’è, per dirla con Leo Longanesi, l’Italia ingovernabile e ingovernata: abbiamo redatto 180mila progetti, ne abbiamo completato l’1%, abbiamo speso il 6% dei finanziamenti ottenuti. Ci sono, dunque, nella vicenda Pnrr, tutta le nostre fragilità e tutti i nostri peggiori vizi nazionali.
Siamo l’unico Stato occidentale che per affrontare le crisi globali che la Storia ci ha ingratamente imposto ha dovuto commissariate il governo dei partiti con personalità esterne alla politica (da Ciampi, a Monti, a Draghi). Siamo l’unico Paese occidentale che, non avendo una pubblica amministrazione funzionante e un sistema politico efficiente, dai terremoti alle pandemie si è regolarmente affidato ai poteri eccezionali di commissari straordinari. “È ora di un generale Figluolo per il Pnrr”, invoca, non a torto, il direttore del Foglio, Claudio Cerasa.
Questa è la nostra maledizione, questa la nostra condanna. C’erano, forse, le condizioni per redimerci e correggerci. Ma non le abbiamo colte. È probabile che gli storici racconteranno la parentesi di Mario Draghi come la grande occasione persa dall’Italia. Forse l’ultima. Un governo da stato di eccezione, un raro senso di responsabilità nazionale: c’erano le condizioni, con Mario Draghi plenipotenziario a palazzo Chigi, per incoraggiare il parlamento a varare, rilegittimandosi, quelle riforme istituzionali di cui parliamo da quarant’anni. Ma non è stato fatto. C’erano le condizioni per rivoluzionare la pubblica amministrazione all’insegna dell’efficacia, dell’efficienza, del merito e della responsabilità individuale. Ma, evidentemente, neanche questo è stato fatto.
Non siamo cambiati, dunque. E perciò continueremo a dimenarci penosamente alle prese con problemi oggettivamente complessi, ma che i nostri partner/competitor padroneggiano meglio di noi.