Si parla tanto della riduzione del numero dei parlamentari. Ma quale ruolo svolge oggi il Parlamento? Siamo a metà della legislatura iniziata nel marzo 2018 ed è utile tracciare un primo bilancio.
Il Parlamento è innanzitutto organo legislativo, ma la legislazione è «a prevalente trazione governativa» (come notato dal «Rapporto sulla legislazione», del 2018, dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera). Solo un quarto delle leggi di questa metà legislatura sono state di iniziativa parlamentare. Sessantatré sono stati i decreti legge (su un terzo dei quali il governo ha posto la fiducia in sede di conversione), con una tendenza accentuata negli ultimi sei mesi. Il governo ha avuto una corsia privilegiata: i tempi medi di approvazione delle leggi di iniziativa parlamentare (sei mesi) si dimezzano per quelle di iniziativa governativa. Ma il Parlamento ha mostrato una inesausta «capacità trasformativa» (questa è una espressione del «Rapporto sulla legislazione» del 2020). Nel periodo dell’«emergenza sanitaria», fino a metà luglio, ha approvato 860 emendamenti ai decreti legge, che sono quindi cresciuti nell’iter parlamentare: il decreto «Cura Italia» da 127 a 176 articoli, quello «Rilancio» da 266 a 341 articoli. Sul decreto legge «Semplificazioni» sono piovuti circa 3 mila emendamenti, di cui più di mille dichiarati inammissibili.
Primo paradosso: il Parlamento è sempre più a rimorchio del governo; non legifera, ma emenda, condannandosi a un ruolo interstiziale, perché opera nelle maglie dei decreti legge del governo. Il risultato è tante leggi, poco Parlamento.
Eppure, non si può dire che il Parlamento non abbia lavorato. Ha proposto, e in molti casi esaminato, circa 4 mila disegni di legge e più di 10 mila interpellanze e interrogazioni (di cui un terzo svolte). Si può stimare che i rappresentanti del popolo siano stati impegnati nel lavoro parlamentare per circa due terzi del tempo lavorativo (a cui bisogna aggiungere l’impegno nei collegi e nei partiti). Numerose sono state le indagini conoscitive avviate o svolte, le proposte di inchieste parlamentari, le risoluzioni, le relazioni di commissioni di inchiesta, e altre attività non legislative, ma di controllo. A questo carico di lavoro (inegualmente distribuito tra i parlamentari) fanno però riscontro scarsa incidenza e poca efficacia. Il Comitato per la Legislazione della Camera dei deputati ha lamentato l’attribuzione di un «improprio» potere normativo e regolamentare ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. Ha criticato il modo in cui il governo «gioca» con i decreti legge, ad esempio, abrogando le norme di altri decreti legge in sede di conversione; o inserendo nella legge di conversione proroghe in blocco dei termini di deleghe in scadenza; oppure trascinando tutte le deroghe alla legislazione vigente con la proroga dell’emergenza. Nel «Rapporto sulla legislazione» è inoltre segnalato il fenomeno del «monocameralismo alternato» (la necessità di convertire in legge entro due mesi i decreti legge impone ad una delle due Camere di approvare a occhi chiusi il testo approvato dall’altra). Secondo paradosso: il Parlamento lavora molto, ma decide poco.
Il vincitore è, quindi, il governo? Forse, sul breve periodo. Ma tutta questa massa di norme da esso originate richiede ulteriori nonne applicative (regolamenti ed atti amministrativi). Alla sua nascita, l’attuale governo aveva una eredità di circa 170 decreti da emanare. Ne ha ora circa 300. Ma il governo è anche prigioniero della sua frenesia legislativa: più vuole regolare, più si lega le mani.
Negli ultimi decreti legge vi sono norme che hanno la forma, ma non la sostanza di legge, sul rinnovo degli inventari dei beni mobili dello Stato, sulle dimore storiche, sui campionati mondiali di sci alpino, sui patronati (anche ai sindacati bisogna dare un non piccolo contentino), sul modo di fare i concorsi per il reclutamento di dipendenti in questo o quel ministero. Che la legge contenga norme generali ed astratte è una favola relegata nei manuali di diritto costituzionale. La realtà è il dominio della «ad-hoc-crazia» (un neologismo coniato dalla politologia americana per indicare gli abiti istituzionali su misura). Così il governo pensa di abbreviare gli «iter» di decisione, sostituendosi all’amministrazione. In realtà, produce distorsioni e vincoli: trasforma la legislazione in amministrazione; aumenta l’ordine labirintico della burocrazia, le lega le mani, ma lega anche le proprie (perché, volendo introdurre mutamenti successivi, il governo dovrà ricorrere ad un’altra legge); rende la vita difficile ai cittadini che non sanno dove stanno le regole, e dove le deroghe ed eccezioni.
Il risultato finale è la balcanizzazione dello Stato (perché le deroghe «ad hoc» hanno più ampio campo di applicazione delle regole), il dominio dei giuristi del cavillo e dei sottili distinguo, la perdita di unità dell’ordinamento, il predominio delle diseguaglianze. Ultimo paradosso: da queste storture tutte le istituzioni escono perdenti, e con loro la società italiana.
Sabino Cassese
Corriere della Sera, 2/09/20
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