Non è la corruzione universitaria a far fuggire i cervelli, è l’umiliazione dei cervelli (che vadano o rimangano) a far dilagare la corruzione. Non sembri questione da poco, perché il ribaltamento dell’osservazione fatta da Raffaele Cantone è necessario, se si vuole passare dalla geremiade moralistica ai rimedi efficaci. Possiamo riprodurre all’infinito l’aneddotica dei figli imposti in cattedra e degli amanti sollevati da sotto a sopra la medesima. Possiamo emanare leggi su leggi, almeno in questo onorando la prosa manzoniana (che deprecava tale costume). Possiamo minacciare quanto si vuole. Non funzionerà mai se non si capisce qual è l’oggetto del contendere: l’accaparramento per utilizzo privato di una spesa pubblica distribuita senza alcuna attenzione ai risultati, alle misurazioni e al merito.
Dal palo del valore legale del titolo di studio, dall’assurda forca che pretende tutto sia uguale, pende il cappio che strangola il merito. E ce n’è, in Italia, tanto. Sia in cattedra che fra i banchi. Ma viene trattato allo stesso modo del demerito e della furbizia accaparratrice. In un sistema aperto e competitivo puoi pure avere il potere di mettere il figlio caprone a insegnare fenomenologia dell’idiota, ma il titolo di cui lo onorerai sarà il coronamento della sua insipienza, mentre i quattrini con cui campare dovrai lasciarglieli, giacche nessuno sarà disposto a darglieli.
Con il sistema che abbiamo creato, invece, il promuovere famigli e famigliari serve ad assicurare loro una fetta di spesa pubblica corrente, conquistata con pubblicazioni inesistenti, realizzate con il copia e incolla da altri deficienti. E fosse solo questo, si potrebbe farne un lazzaretto per presuntuosi senza costrutto. Il guaio è che poi, dopo avere fregato i soldi ai genitori, si frega cultura ai figli, creando la società dell’arrembaggio alla sola fonte che sembra inesauribile: la spesa pubblica.
Ecosistema di tale malapianta, del resto, è la Repubblica dei bonus (a nulla). Il mercato non è affatto perfetto, ma sa essere spietato. Lasciate che i soldi vadano dove le aziende trovano personale qualificato, dove la ricerca crea brevetti, dove la cultura è tale perché i colti, e non i sorpresi, la riconoscono, e vedrete come avvizziranno in fretta i falsi professori, lasciati in una solitudine impoverita che, magari, suggerirà loro l’opportunità di studiare.
A quel punto non avremo più l’assurda Autorità anti corruzione, perché solo gli inutili deraglieranno dal diritto per avere in cambio il nulla blasonato. Quel giorno, magari, ci porremo il problema di finanziare la ricerca nei campi lontani dal mercato economico (ammesso e non concesso che esistano), mentre avremo già risolto quello di finanziare gli studi ai capaci e meritevoli non abbienti: se li contenderanno i finanziatori. Tutto sta a riconoscerli, i capaci. Per farlo occorre misurare in continuazione i risultati, le carriere, le produzioni scientifiche. Rendendo riconoscibili, per inesistenza di successi, quanti sperano di campare di rendita.
Per far questo, però, anziché produrre pistolotti sermoneggianti, si deve accettare una rivoluzione: di cultura e di università non si occupano politici che inseguono le blandizie di cattedratici le cui «conoscenze» altro non sono che le aderenze. Se ne occupa chi ne trae profitto. Quel giorno riconosceremo i nostri docenti di qualità e apriremo la strada ai discenti capaci di superarli. I cervelli non scapperanno, ma cercheranno fortuna nel mondo. Molti cervelli arriveranno, considerando una fortuna la nostra cultura. C’è solo un ostacolo da abbattere: il corporativismo zotico di chi si sistema e langue a vita.
Davide Giacalone, Il Giornale 25 settembre 2016