L’Italia, come è noto, non ha avuto quella Riforma protestante che secondo Max Weber era il presupposto affinché “lo spirito del capitalismo” potesse attecchire davvero. In affetti, da noi ha attecchito ben poco. E forse non è un caso che solo i paesi europei non riformati facciano parte di quella congrega che negli stati del nord Europa e nel mondo anglosassone, che del liberalismo è la patria, vengono sprezzantemente definiti Piigs (acronimo che molto e forse troppo ricorda la parola “maiali”). Sono il Portogallo, l’Irlanda, l’Italia, la Grecia e la Spagna.
Senza andare troppo in là nel tempo, la Prima Repubblica è stata politicamente dominata da due partiti, il PCI e la Dc. L’uno fortemente ideologico, tanto da essere qualificato come “partito Chiesa” e l’altro, la Democrazia cristiana, esplicitamente riferito ad una Chiesa vera e propria. Il pensiero e il metodo liberale, dunque, hanno avuto ben pochi margini d’azione nella società e nella politica italiane.
Tuttavia, per un qualche misterioso paradosso della Storia, viviamo in un’epoca in cui l’appellativo “liberale” si è inaspettatamente guadagnato un inaspettato prestigio sociale. Lo testimonia il fatto che, di colpo, sono diventati tutti liberali. Liberale si dichiara da sempre il partito guidato da Antonio Tajani (FI) e liberali, anche se con occasionali confusioni “liberal” e “social liberali”, si qualificano il leader di Italia viva Matteo Renzi e quello di Azione Carlo Calenda. Liberale è stato giudicato il discorso di Giorgia Meloni per la fiducia in Parlamento. Ed era vero, le parole erano parole liberali. A partire dal ragionamento sull’importanza di lasciare liberi gli “spiriti animali” (cit, da J.M. Keynes) del ceto imprenditoriale rispetto alla naturale tendenza interventistica e dirigistica dello Stato. Ma non si può dire che, tra taxi, aerei, banche e via elencando, i fatti siano stati affettivamente coerenti con quelle parole.
Negli ultimi giorni, anche Giorgio Napolitano è, giocoforza, entrata nel novero dei liberali italiani. È accaduto a causa di un titolo forzato di Repubblica (“Un liberale tra le file del Pci”) ad un commento in cui Stefano Folli sosteneva, invece, sostanzialmente il contrario (“Giorgio Napolitano non era un liberale capitato quasi per caso nelle file del Pci. Era un comunista convinto e colto che aveva privilegiato l’opzione riformatrice in anticipo sui tempi”). Sull’HuffingtonPost è poi intervenuto Marco Gervasoni con un “Elogio liberale di Elly Schlein”. Un commento scritto con apprezzabile piglio anticonformista, la cui tesi che vedrebbe la segretaria del Pd dirazzare dal solco “cattocomunista” tanto da meritare l’apprezzamento di un liberale doc a me sembra, però, piuttosto forzata. Sbaglierò, ma l’approccio di Elly Schlein ai problemi della società italiana e del mondo mi pare ispirato ad un originale connubio tra la logica di un aderente ad un centro sociale e la logica di un boy scout. Stato e Dio la fanno ancora da padroni.
La verità è che, ad oggi, non risultano deroghe significative alla storia politica nazionale. L’istintiva tensione per la realtà contrapposta ad ogni demagogia, il valore del merito individuale, la concezione di uno “Stato minimo”, l’apertura dei mercati al principio della libera concorrenza, l’amore per il pluralismo e per il confronto tra tesi opposte sono ancora merce rara. Di buono c’è che il brand liberale, e in particolare quello einaudiano, sta vivendo una nuova giovinezza mediatica. Speriamo che qualcuno osi incarnarlo davvero.