Il futuro della fibra è il romanzo dell’estate ma in questo romanzo si nascondono diverse trappole legate al futuro della concorrenza. Paletti giusti per evitare un effetto boomerang.
La rete unica e pubblica di telecomunicazioni è il tormentone dell’estate 2020. Ha aperto le danze Beppe Grillo, lanciando nel giro di poche settimane due messaggi opposti: il primo suggeriva la rete unica in capo a Tim e verticalmente integrata, chiedendo apertamente la testa dell’amministratore delegato di Open Fiber, società a controllo congiunto Cdp ed Enel; nel secondo suggeriva Cdp come primo azionista di una rete separata. Le reazioni sono state numerose e rumorose, da Franco Bassanini (presidente di Open Fiber e “ideologo” della rete unica, pubblica e separata) a diversi esponenti della politica e del governo (quali Graziano Delrio, Stefano Buffagni e Giorgia Meloni), grossomodo sulla medesima linea.
Dietro questo rinnovato interesse ci sono due ragioni, in parte connesse: (1) da un lato, la diffusa consapevolezza dell’impatto potenzialmente negativo della “nuova” concorrenza infrastrutturale su investimenti in banda ultra larga che siano omogeneamente distribuiti sul territorio nazionale, in tempi brevi; (2) dall’altro, l’opportunità di ridefinire il ruolo di Cdp, e se si vuole della presenza pubblica, in Tim nell’ambito dell’operazione FiberCop la cui discussione è stata avviata presso il cda dell’azienda, con il fondo Kkr come partner. Eppure continuano a mancare le domande giuste.
La prima: perché, proprio oggi, si riparla di rete unica? La seconda: una rete unica, nell’attuale quadro regolatorio, deve essere per forza verticalmente separata e con quale grado di separazione? La terza: una rete unica deve essere per forza pubblica? Rispondere a queste domande impone, a sua volta, chiedersi quali siano gli obiettivi attesi e perché, eventualmente, tali obiettivi non possano esser conseguiti da soluzioni alternative.
La concorrenza infrastrutturale
La concorrenza infrastrutturale nelle tlc c’è sempre stata dai tempi delle liberalizzazioni. Anzi la regolamentazione pro-concorrenziale europea, ispirata al principio del cosiddetto “ladder of investments“, la “scala degli investimenti” proposta da Martin Cave si è basata proprio sul principio di concorrenza infrastrutturale, ma si è riferita, tipicamente, al caso di operatori, almeno potenzialmente, verticalmente integrati. Secondo questo principio, la rete nazionale costituisce una risorsa non duplicabile, nella quale l’incumbent detiene il monopolio. L’accesso a questa rete è quindi necessario da parte dei competitor per offrire servizi in concorrenza. In particolare, nel nostro paese, la regolazione ha riconosciuto e garantito il diritto dei concorrenti ad accedere in modo disaggregato (unbundling) alla rete di Tim scegliendo, di converso e in via progressiva, il proprio grado di infrastrutturazione. L’idea di fondo di questo modello è stata quella di garantire la concorrenza sia quando proveniente da fornitori puri di servizi (cioè la cosiddetta concorrenza service-based) sia quando proveniente da operatori verticalmente integrati (cioè la cosiddetta concorrenza infrastructure-based).
Il problema è che l’innovazione tecnologica dell’incumbent (l’azienda ex monopolista che continua a occupare una posizione dominante nel mercato liberalizzato) e la progressiva infrastrutturazione dei concorrenti dipendono dalla dinamica della domanda. Tutti gli operatori verticalmente integrati, infatti, possono contare sulla propria domanda captive – cioè quei clienti che, per varie ragioni, sono meno dinamici e tendono a non cambiare operatore – nonché su quella potenziale. Di conseguenza, puntano ad adeguare la qualità infrastrutturale alle esigenze della domanda. A oggi questo è il modello prevalente.
In Italia, recentemente, si è aggiunta con l’ingresso di Open Fiber, operatore attivo solo a livello wholesale (cioè che non serve direttamente i clienti finali, ma realizza e gestisce la rete attraverso cui imprese terze vendono i propri servizi). Open Fiber persegue un progetto di infrastrutturazione nazionale in fibra ottica, una nuova forma di concorrenza infrastrutturale. Questo modello di business se da un lato ha agito positivamente da stimolo come spinta alla fibra ottica di Tim (che può scalare da rame a Fttc e da Fttc a Ftth), dall’altro finisce, proprio per questo, per generare, nei territori in cui avanza, il rischio di duplicazione di infrastrutture a banda ultra larga. Inoltre, non avendo clienti propri, Open Fiber soddisfa la domanda di operatori che non intendano rivolgersi a Tim (e in alcuni casi a Fastweb), il che può comportare una sottoutilizzazione della rete. Da qui il rischio di investimenti non omogenei sul territorio: se dunque si ragiona di “rete unica” è per rispondere a questo problema, che ha natura sociale e politica più che economica.
In sintesi, non viene imputato all’attuale modello di concorrenza infrastrutturale di essere inadeguato, ma di essere incapace di raggiungere obiettivi che la politica ha arbitrariamente definito. In questo senso, la scelta terminologica sottostante è fuorviante: le aree prive di banda larga, nelle quali la domanda è insufficiente a ripagare gli investimenti, non sono “a fallimento di mercato”, ma “a funzionamento di mercato”. Che poi la politica decida che vi sono ragioni sociali per cui tutti debbano avere la possibilità di un collegamento, è perfettamente legittimo. Ma questo obiettivo, come ha osservato Franco Debenedetti, può essere raggiunto con una molteplicità di strumenti (alcuni dei quali, cioè i bandi pubblici, già messi in campo), senza bisogno di rivoluzioni. Non solo: se il problema delle aree bianche è l’assenza di domanda, allora la soluzione dovrebbe contemplare un più intenso sostegno alla domanda stessa (sia per quanto riguarda le famiglie sia per le imprese). In tal modo, si potrebbero rafforzare gli incentivi a investire senza alterare il gioco competitivo.
La rete “unica”
Una rete unica risolverebbe il fallimento di una concorrenza infrastrutturale nella quale si confrontano, a livello nazionale, un operatore verticalmente integrato (Tim) e uno che si limita a gestire l’infrastruttura (Open Fiber). Vale la pena di ribadire che il rischio di sovrainvestimento non dipende di per sé dalla concorrenza infrastrutturale (che anzi veniva prima accusata di determinare un sottoinvestimento!), ma dalla – legittima – forzatura effettuata col piano per la Banda ultra larga e la creazione di Open Fiber.
Il punto più rilevante riguarda allora la capacità di una rete unica non solo di prevenire il sovrainvestimento territoriale ma di garantire, in tempi rapidi, una infrastrutturazione in banda ultra larga in tutto il territorio nazionale. Quest’ultimo obiettivo non deriva in sé dall’unicità della rete, ma dalla strategia di investimento e, se possibile, da un presidio sanzionatorio di controllo. Un presidio può essere assicurato da impegni assunti dal titolare della rete in sede Agcom ai sensi del Codice europeo delle comunicazioni elettroniche. Impegni che il regolatore può integrare e rendere vincolanti.
La proprietà della rete
La capacità e la volontà di realizzare investimenti è a sua volta del tutto indipendente dalla proprietà della rete. Lo conferma il fatto che i 45 paesi censiti dall’Ocse nell’indagine “Product Market Regulation” si dividono esattamente a metà: 23 mantengono una partecipazione pubblica nel principale operatore telefonico, 22 no, e non vi è alcun indicatore che i primi siano in grado di promuovere investimenti di quantità o qualità migliore. La natura del controllo, insomma, conta molto meno degli incentivi legati alla regolazione e all’evoluzione della domanda, come ha osservato anche Alfonso Fuggetta, peraltro sostenitore della separazione (ma non della pubblicizzazione) della rete.
La scelta della proprietà pubblica di una rete unica è dunque il risultato di una valutazione politica che nulla ha in sé di tecnico o di necessitato. D’altra parte un eventuale contratto vincolante con il regolatore sulla natura e la tempistica degli investimenti in reti ad altissima capacità non avrebbe nulla a che fare con la natura proprietaria, pubblica o privata. E’ anzi probabile che la proprietà pubblica finisca per generare maggiori conflitti di interessi, essendo per definizione meno esposta alle sanzioni del mercato e passibile di un maggior rischio di cattura del regolatore. Peraltro questo tema è del tutto indipendente dalla questione relativa al grado di integrazione o separazione verticale del titolare della rete unica.
Il grado di separazione verticale
Una rete unica che sia “verticalmente integrata” è potenzialmente più incline a porre problemi concorrenziali. Ma bisogna considerare il contesto (e il settore) cui ci si riferisce. La chiave di volta è la regolazione: anche in presenza di integrazione verticale, buone regole e buoni regolatori sottraggono alla discrezionalità del gestore tutti gli ambiti che possono generare discriminazione verso i competitor o pregiudizio anticoncorrenziale. In astratto la separazione proprietaria può costituire una soluzione ottimale dal punto di vista del disegno di mercato, ma i benefici vanno confrontati coi costi di coordinamento della filiera e con le ovvie perdite di efficienza: nei settori energetici non v’è dubbio che la separazione proprietaria sia tecnicamente ed economicamente efficace, nelle telecomunicazioni molto meno. Secondo un recente studio di Cullen International su 10 paesi (Italia, Repubblica Ceca, Danimarca, Irlanda, Islanda, Regno Unito, Polonia, Svezia, Australia e Nuova Zelanda) la separazione proprietaria è un modello utilizzato solo in Australia e Nuova Zelanda, dove non ha prodotto risultati apprezzabili (anzi), mentre l’Europa è piuttosto orientata verso la separazione funzionale o una separazione legale.
Quest’ultima soluzione può garantire (e ha garantito) un corretto svolgimento del gioco concorrenziale. Ciò per tre ragioni. La prima è che la nostra autorità di regolazione (l’Agcom) già esercita un controllo tra i più avanzati in Europa. In particolare, impone che l’accesso e l’uso della rete sia garantito ai concorrenti alle stesse condizioni e costi e addirittura attraverso gli stessi sistemi e processi a cui deve sottostare la stessa Tim. Tra l’altro, il monitoraggio sul rispetto della terzietà della rete è affidato a un organismo interno ma indipendente che coadiuva l’Agcom, chiamato Organo di vigilanza sulla parità di accesso alla rete Tim. L’Autorità nomina tre dei cinque componenti e ne indica il presidente. Si tratta di un modello adottato in altri tre paesi oltre il nostro: Islanda, Irlanda e Regno Unito.
La seconda motivazione è che la novità di possibili effetti anti-concorrenziali riguarderebbe proprio il tema strategico dei nuovi investimenti, una questione che non c’entra nulla con la proprietà della rete e poco con il suo grado di integrazione verticale, ma dipende soprattutto dagli indirizzi regolatori. Paradossalmente, se si ritiene che gli investimenti siano insufficienti, bisognerebbe rilassare i principi sull’orientamento al costo e consentire all’operatore di rete di estrarre una rendita maggiore (cosa che, ovviamente, è un assurdo). La terza ragione riguarda la circostanza che è possibile coniugare nella rete unica la proprietà privata da un lato e un controllo congiunto dall’altro attraverso una governance simile a quella introdotta nel Regno Unito e in altri paesi.
D’altra parte, nel caso di Tim, una separazione verticale può essere imposta solo a seguito di una scalata pubblica, circostanza che a sua volta corrisponderebbe a una pubblicizzazione di un debito privato di diverse decine di miliardi. A ciò si aggiunga che una Tim separata e attiva soltanto nei servizi sarebbe l’unica grande impresa italiana di telecomunicazioni a non avere asset infrastrutturali e un destino abbastanza incerto sul mercato (probabilmente esposta ad altre concentrazioni).
Se, invece, si resta su un ambito volontario, di mercato, l’attuale progetto annunciato da Tim permetterebbe di trovare un punto di equilibrio tra il superamento dei pretesi limiti dell’attuale modello di concorrenza infrastrutturale e gli incentivi a nuovi investimenti. Infine, occorre ricordare che il Codice europeo fornisce molti strumenti, ma non indica alcuna via preferenziale, piuttosto attrezza le Autorità di controllo con poteri adeguati a scelte innovative. Lo stesso Codice europeo prevede esplicitamente il modello in uso nel nostro paese. L’unico ritorno al passato, e senza via di uscita, è invece quello di un monopolista pubblico, estraneo a logiche di mercato, sopraffatto da debiti a quel punto “di tutti” e capace solo di promesse. L’Italia, con il suo governo, è pronta a fare di tutto per non correre questo rischio?
Sergio Boccadutri e Carlo Stagnaro
Il Foglio, 27/08/20
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