La globalizzazione e il lavoro minorile, un argomento controintuitivo di Sergio Ricossa tratto dal pamphlet Elogio della cattiveria
Oggi chi fa lavorare i minori è in cima alla lista dei nemici della società occidentale, e la ragione del primato è una ragione egoistica: la cosiddetta globalizzazione.
Cerchiamo di intenderci: con la globalizzazione, alcuni Paesi poveri del Terzo mondo cominciano ad esportare manufatti nei nostri Paesi sviluppati. Sono beni venduti a basso prezzo, altrimenti nessuno li comprerebbe.
I nostri solidaristi dovrebbero gioire di questo inizio di progresso economico in Asia e altri continenti in ritardo. Macché, i nostri solidaristi protestano con clamore, d’accordo con i nostri ricchi industriali, e accusano i Paesi poveri di pagare poco la manodopera, di non avere sistemi di sicurezza sociale degna di nome, di assumere e far lavorare anche i bambini, di esercitare una concorrenza sleale nei confronti dell’Occidente.
Insomma, accusano l’Oriente di fare esattamente quanto fece l’Occidente in passato, quando i poveri eravamo noi.
Lasciano senza risposta alcune domande pertinenti: qual è la produttività del lavoro asiatico? La nostra sicurezza sociale è migliore o solo più costose? Quando si cessa di essere bambini e si diventa adulti?
È meglio guadagnare poco o guadagnare niente perché disoccupati? È meglio che una famiglia soffra la fame o abbia un po’ di cibo in più grazie al lavoro minorile? I datori di lavoro obbligano i minori ad occuparsi, come avveniva per gli schiavi, o decidono i familiari dei minori?
Non permangono in Occidente, in specie nelle campagne, forme di lavoro minorile che nessuno condanna? Sono del tutto sconosciuti, in Occidente, i bambini dediti al contrabbando o che smerciano droga? Prima di far le prediche agli altri, non dovremmo guardare con occhio critico casa nostra? Perché in casa nostra rispettiamo il costume degli zingari, che ammette il lavoro minorile e perfino il bambino ladro?