È, ormai, opinione largamente diffusa che l’Europa debba darsi un’anima politica, sì da poter disporre di una Difesa comune ancora tutta da costruire. La tesi rimbalza dalle aule parlamentari ai talk show televisivi, attraversa orizzontalmente i social network, riecheggia davanti ai banconi dei bar. Bene, anzi: benissimo. Così come Vladimir Putin ha rimesso al mondo la Nato, Donald Trump sta, dunque, rivitalizzando l’Europa. Gli eruditi la chiamano “eterogenesi dei fini”, capita quando un’azione sortisce effetti opposti a quelli desiderati.
Perciò bene, anzi benissimo, che l’urgenza di un’“Europa politica” sia diventata di senso comune; meno bene il fatto che, salvo rare e lodevoli eccezioni, declamato l’obiettivo nessuno si preoccupi di spiegare come sia possibile perseguirlo. Al massimo si sente dire, e in passato anche chi scrive è caduto in quest’errore, che occorre “una riforma dei Trattati europei”. L’errore sta nel ritenere che i 27 Paesi che compongono l’Unione possano all’unisono decidere di avventurarsi lungo questa strada. Come è noto, basta che uno solo dica di no per paralizzare tutti gli altri. Sarebbe bello, certo, ma non è realistico: figurarsi se un Orban qualsiasi non porrebbe il veto per fare un favore a chi, come Putin, desidera un’Europa debole e divisa…
Gli esperti indicano allora due strade alternative. Ovvero, le “clausole passerella”, previste dai Trattati per assumere decisioni a maggioranza qualificata anziché all’unanimità, oppure le “cooperazioni rafforzate”, che richiedono l’adesione di minimo 9 Stati. C’è solo un problema: entrambe le procedure possono essere attivate solo da un voto del Consiglio europeo, dove vige la regola dell’unanimità. Siamo, dunque, da capo a dodici. Le strade ci sarebbero, ma non sono praticabili.
C’è, però, una terza via, ed è quella giusta. L’ha individuata anni fa il professor Sergio Fabbrini, docente di relazioni internazionali alla Luiss e massimo esperto italiano di istituzioni europee, che l’ha ribadita, adattandola al contesto attuale, in un libro appena pubblicato da Mondadori: “Nazionalismo 2.0. La sfida sovranista all’Europa integrata”.
Il professor Fabbrini prende le mosse da alcune considerazioni di carattere, per così dire, politico. La prima è che sarebbe folle pensare di poter costruire un vero e proprio Stato europeo che si sostituisse agli Stati nazionali assorbendone le competenze. Occorre, dice, distinguere tra competenze nazionali e sovranazionali, lasciando che a quest’ultima categoria appartengano tutte quelle funzioni necessarie a fronteggiare le grandi minacce globali. Dalla pandemia, dunque, alla guerra. Piuttosto che di super “Stato europeo” o di “Stato federale”, Fabbrini preferisce parlare di “Unione federale”.
Bene, ma come ci si arriva? Attraverso lo strumento dei “trattati a margine”. In sostanza, un accordo politico intergovernativo tra un nucleo di paesi europei “volenterosi” (Francia, Germania, Italia, Spagna, baltici…) sul modello di quello che, a suo tempo, consentì di aggirare il veto del Regno Unito e dar vita al Fiscal compact. Per questo, sul Sole 24Ore, il professor Fabbrini auspica la nascita di “Political compact”.
Qualcosa del genere accadde anche con l’introduzione della moneta unica: oggi come allora, si dà per scontato che chi non potesse o volesse aderire subito lo farà inevitabilmente in un secondo momento. Poi, certo, ci sarebbe il problema dello strapotere francese a causa dell’arma nucleare, così come quello della legittimità democratica delle decisioni assunte da questa sorta di coalizione dei volenterosi europei. Problemi di cui Fabbrini indica le possibili soluzioni, sia politiche sia istituzionali.
Ma non è questo il punto. Il punto è che una via da percorrere per raggiungere l’obiettivo rivoluzionario di un’Europa politica capace persino di difendersi ci sarebbe, e sarebbe saggio percorrerla prima che le elezioni francesi mettano a rischio la tenuta di uno dei partner imprescindibili di questa ambiziosa operazione. Poi, a processo avviato, se anche Marine Le Pen dovesse conquistare l’Eliseo si immagina che non rovescerà il tavolo del Political compact così come non ha mai davvero inteso rovesciare quello dell’euro.