Tratto da Il Foglio del 30 giugno 2016
Lettera al direttore
“Basta con l’ austerità, ripartiamo dalla crescita e dalla solidarietà”. Questa l’ opinione di alcuni leader europei dopo il referendum sulla Brexit. Dal Regno Unito sarebbe, infatti, arrivato un segnale chiaro: l’ Europa del rigore e delle regole ha fallito. L’ invito è quello di voltare pagina, altrimenti altri seguiranno l’ esempio inglese. C’ è da chiedersi, però, se la strada per rafforzare l’ Unione europea sia quella della maggiore flessibilità di bilancio.
Forse no. Perché, a ben vedere, i paesi che oggi chiedono meno austerità non stanno attuando politiche restrittive. Quelli che, invece, le stanno implementando non chiedono alcun margine in più. E, infine, quelli che hanno spazi di manovra fiscale vogliono un’ Europa con i conti in ordine. Il primo caso è quello dell’ Italia e della Francia. Entrambi reclamano meno austerità sebbene siano i paesi a cui più è stato concesso in termini di flessibilità. La Francia è sotto procedura di disavanzo eccessivo dal 2009 e, nonostante ciò, anche per l’ anno in corso al governo di Parigi è stato accordato tempo aggiuntivo per ritornare su un percorso fiscale sostenibile. La spesa pubblica continuerà, quindi, a crescere. Negli ultimi dieci anni è aumentata di oltre 4 punti, raggiungendo nel 2015 il 56,8 per cento del pil, il livello più elevato della zona euro e dell’ unione nel suo complesso. Insomma, di austerità in Francia c’ è poca traccia. Lo stesso si può affermare per l’ Italia. La spesa pubblica ha superato da un quinquennio il 50 per cento del prodotto interno lordo e fatica a diminuire: la legge di Stabilità per il 2016 prevede una riduzione delle uscite totali di soli 360 milioni di euro. Il disavanzo resta sotto il 3 per cento (l’ Italia è uscita dalla procedura di disavanzo eccessiva nel 2013) ma scende lentamente. In particolare, l’ avanzo primario al netto del ciclo, che rappresenta un buon indicatore del grado di austerità, si è ridotto (dal 4,2 per cento del 2013 al 3,1 per cento del 2015). E, per il 2016, è previsto che cali al 2,4 per cento. Difficile, con questi dati parlare di rigore in un paese che, peraltro, ha appena ottenuto 14 miliardi di flessibilità fiscale.
Il secondo caso è quello del Portogallo e della Grecia. L’ anti austerità è stato il cavallo di battaglia delle campagne elettorali di Alexis Tsipras e António Costa. Eppure, una volta al governo, hanno cambiato rotta. Nel caso della Grecia perché l’ unico modo per ottenere un terzo piano di aiuti (80 miliardi di euro dopo i 230 già incassati) è stato quello di garantire ai creditori (che altro non sono che i contribuenti europei) riforme e consolidamento fiscale dopo oltre un decennio in cui il paese ha vissuto ben al di so pra dei propri mezzi. Nel caso del Portogallo, perché il presidente della Repubblica prima di dare il mandato al socialista Costa ha chiesto di proseguire sulla strada dei “conti in ordine”.
Nel 2011, il Portogallo ha ricevuto aiuti europei per circa 70 miliardi di euro, ha fatto pesanti sacrifici, e comincia a vedere i risultati in termini di crescita (nel 2015 è stata dell’ 1,5 per cento pressoché in linea con la media dell’ area dell’ euro): tornare indietro significherebbe vanificare gli sforzi fatti fino a ora.
Il terzo caso è quello del Regno Unito e della Spagna. Gli inglesi hanno deciso di uscire dall’ Europa non per le politiche di austerità implementate dal governo, che peraltro hanno comportato un aggiustamento molto più severo di quanto richiesto dalle regole in vigore per i membri dell’ area della moneta unica. Tra i motivi per cui il 52 per cento ha votato per la Brexit c’ è anche quello di non fidarsi di far parte di un’ unione in cui la troppo “poca” austerità – e non la “troppa” austerità – rischia di far pagare loro (almeno per la quota di partecipazione al Fondo di stabilità europeo) il conto dei dissesti altrui. Va ricordato che una delle condizioni che Cameron ha negoziato con l’ Europa – nel febbraio scorso – è stata proprio non dover partecipare agli eventuali futuri salvataggi dei paesi europei in crisi. Per quanto attiene alla Spagna, la maggioranza degli elettori – per la seconda volta in sei mesi – ha votato per Mariano Rajoy, colui che ha dimezzato il disavanzo fiscale in soli tre anni (dal 10,4 per cento del 2012 al 5,1 del 2015). Non sarà facile formare un governo, certo. Ma quello che emerge dal voto è che il binomio “riforme e conti in ordine” ha vinto (e convinto) rispetto alle promesse di ulteriore spesa pubblica. A cominciare da quelle del leader di Podemos, Pablo Iglesias: circa 100 miliardi di euro di incrementi di spesa da finanziare (entro il 2019) con non ben definiti ricavi derivanti dalla “futura crescita economica”, il tutto messo nero su bianco su un catalogo Ikea trasformato per l’ occasione in programma elettorale. In conclusione, lo “stop all’ austerità” non sembra essere né parte del problema, né – tantomeno – della soluzione. Le soluzioni da trovare per ridare slancio al progetto comunitario sono ben altre. Ma prima di pensare al “cosa fare”, i governi europeisti dovrebbero fare uno sforzo per raccontare “cosa è stato fatto” fino ad ora. Nonostante le difficoltà, l’ emergenza e – particolare da non sottovalutare – l’ assenza di un’ unione fiscale, diversi strumenti sono stati messi in campo: ricordarlo servirebbe a mitigare il sentimento di disaffezione che prevale tra i cittadini di quasi tutti i paesi dell’ Unione. Il Meccanismo europeo di stabilità – conosciuto come Fondo salva stati – ad esempio, ha contribuito a portare fuori dalla crisi ben cinque paesi (i salvataggi della Grecia e di Cipro sono ancora in corso). E lo ha fatto con i soldi dei cittadini europei (per una minima parte con quelli degli azionisti del Fmi). L’ Europa, quindi, con le sue lentezze e la sua burocrazia, è stata più solidale di quanto viene raccontato dalle forze anti sistema. Ma anche dagli stessi leader europeisti, a cui fa comodo appellarsi all’ Europa “del rigore e dell’ austerità” per nascondere le difficoltà interne a realizzare le riforme strutturali. Il conto da pagare di una narrazione parziale rischia, però, di essere elevato. Lo smarrimento di diversi sostenitori del “leave” – attualmente al governo – lo dimostra.
Veronica De Romanis