Anche nel secondo episodio che è appena uscito nelle sale, «Smetto quando voglio» fa ridere e pensare. Fa ridere molto, il film diretto da Sydney Sibilia, e chi ha apprezzato il primo non resterà deluso. Ma al di là del suo valore artistico, anche stavolta il film spezza la cappa del piagnisteo sui poveri giovani che non trovano lavoro, le lamentazioni petulanti sul «futuro che ci hanno rubato», le geremiadi sulla precarietà.
Senza nascondere però il fatto terribile che in Italia è tutto vero.
È vero che i brillanti ricercatori («la banda dei ricercatori», è stata battezzata nel film) devono nascondere la loro cultura, il loro talento, il loro titolo di studi, per avere posti dequalificati, sottopagati e decisamente al di sotto delle aspettative legittimamente coltivate.
È vero che il merito non è apprezzato e anzi è una parolaccia. È vero che l’appello alla fantasia, alla determinazione, al rifiuto del miraggio del posto comodo e stabile rischia di diventare l’ennesimo elogio dell’arte di arrangiarsi. Certo, il tema nel film è declinato in formule narrative che sconfinano nel grottesco, nella comicità, nella trovata ridanciana.
Ma come nel film di Checco Zalone che rovescia comicamente il mito del posto fisso scattando una fotografia esatta della psicologia italiana di inizio millennio, anche in questo nuovo episodio di «Smetto quando voglio» (e forse come nella migliore tradizione della commedia all’italiana) un pezzo della società italiana viene rappresentata e restituita sotto le forme del riso, della satira e della comicità. Si ride, ma ci si dispera anche.
Resta da calcolare quanto tempo ci vorrà ancora per capire quanto pesi su chi ha meno di trent’anni il crollo di ogni fiducia, il desiderio di appartarsi e di trovare strade tortuose per affermare un minimo di lavoro dignitoso e dignitosamente retribuito.
Per capire che la ribellione avviene per una secessione interiore silenziosa ma implacabile nei confronti di tutto ciò che ha creato per decenni ormai tramontati coesione sociale. Che il modo avventuroso e anche geniale di rifugiarsi in una creatività professionale inedita ma senza sbocchi autentici alla fine scava un fossato con il resto del mondo. Che si ride, ma ci si arrabbia anche.
Si spezza un legame, per poi lamentarsi increduli se le basi della democrazia si assottigliano. [spacer height=”20px”]
Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera 5 febbraio 2017