Ci sono i preveggenti, che vedono le cose in anticipo. Ci sono i normali vedenti, che osservano la realtà e la raccontano. Poi ci sono gli editorialisti dei giornaloni, le coscienze travagliate e sensibili, che fingono di vedere le cose in ritardo, per non ammettere di averle taciute o velate. È così che dalle rinomate colonne, ora, ci s’avvede che forse c’era un côté avventuristico e azzardoso, nel modo in cui Matteo Renzi interpretava il ruolo di governante. Posto che cotale condotta muove a umana solidarietà verso il perdente scaricato, avverto che non ci siamo, neanche con i ripensamenti fuori tempo massimo.
Il giovane arrembante della Leopolda incarnava una sinistra pragmatica e risoluta, pronta ad abbattere i tabù, anche lessicali, dell’ortodossia. Allora era assai più simpatico a me, reprobo incoscenzioso, che ai pensosi scrivani. L’arrivo al governo fu un filino brusco, talché sostenemmo che s’era tornati alla segreteria di partito che dispone dei governi. Ma era fisima che altri trascurarono. Ridemmo delle slides, ma apprezzammo il piglio con cui si modificava la legislazione del lavoro (salvo lasciare tutto per aria). Ma rigettammo la stagione delle riforme costituzionali. Roba mal concepita e peggio scritta.
Avvertimmo che l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non avrebbe mai dovuto promulgare una legge elettorale che, dal luglio 2016 (valeva a scoppio ritardato), deprivava il Colle di uno dei suoi poteri, rendendo impossibile convocare le elezioni. Già quello era un attentato alla Costituzione, come oggi ben si vede.
Ma ancora lo si tace, o lo si accenna senza indicare i colpevoli. Eravamo pochi sciamannati a osare criticare le gesta di colui che, del resto, a furor di Parlamento tornava al Quirinale. Ora dicono, le penne altolocate, che tutto fu mal concepito. Questo è niente, oh signori. Perché hanno posto rimedio gli italiani. I guai sono altri, che noi tutti pagheremo.
Si sono buttati anni in cui la Banca centrale europea ha comprato tempo
Il Sole 24 Ore si chiede cosa intende fare l’Europa (si chiama Unione europea, comunque), ma la stella doveva essere al tramonto e non vide, per troppo tempo, che noi cadevamo il doppio e crescevamo la metà degli altri con l’euro in tasca. Forse era ed è nostro, il problema. Dal Corriere della Sera a Repubblica s’era vigili nello scrutare le reazioni dei mercati, supponendo s’incarnino nei soliti indici, che è come padroneggiare il futuro eviscerando da aruspici gli uccelli. Ma alla politica laurina dei bonus non s’oppose altro che qualche smorfia snob. Invece è quello il problema vero: si sono buttati anni in cui la Banca centrale europea ha comprato tempo.
Si raccontava di quanto fosse maschia la richiesta italiana all’Europa (sempre Ue) di essere liberi di spendere. Grandioso. Peccato siano deficit e debiti, che torneranno alla gola quando i tassi ricresceranno.
Si discettava di spending review, omettendo di ricordare che i soli veri tagli li aveva fatti la Bce, facendo scendere gli oneri del debito. Hanno creduto agli arbitrati per i correntisti delle banche fallite e ci hanno lasciati soli a dire che la rivalutazione delle quote della Banca d’Italia sarebbe stata un fallimento, come oggi si constata. Si sono fatti titoloni su «meno tasse», mentre cresceva il prelievo fiscale. Su questi fronti i rimedi saranno dolorosi e ci vorrà assai più tempo di quello che si è sprecato.
Non si può pretendere la preveggenza, però si esagera in postveggenza. O, meglio, in troppa cura della convenienza.
Davide Giacalone, Il Giornale 8 dicembre 2016