L’inflazione è un problema in sé, ancora contenuto e con risvolti anche positivi. Ma ne segnala un altro, che la pandemia ha reso patologico: troppo Stato nel mercato e conseguente drenaggio di capitali indirizzati verso i debiti pubblici, una sorta di StatoFlazione. E ne genera un terzo, per noi europei: i differenziali all’interno dell’area dell’euro. Non è un indovinello per (supposti) specialisti, ma una cosa che fruga nelle tasche e le alleggerisce senza neanche aprirle.
Negli Stati Uniti l’inflazione è al 6.2%. Non è un dramma, ma neanche trascurabile. Tanto è vero che, come era prevedibile, la pretesa di considerarla solo temporanea e passeggera s’indebolisce. La banca centrale Usa (Fed), dopo averlo sostenuto, ora afferma che no, non passa da sola. Il che comporta quello che nessuno ha voglia e si azzarda a dire: le politiche monetarie accomodanti, i tassi tenuti a zero e l’acquisto di titoli del debito pubblico devono rinculare. Gradualmente quanto si vuole, ma si deve fare. I tassi d’interesse, del resto, riflettono la crescita attesa e prende denaro in prestito chi conta di farlo fruttare più di quel che costa. Non è, quindi, naturale che siano vicini allo zero. Se ce li si tiene a forza si genera inflazione, togliendo valore alla moneta. Fin qui, in recessione, quel che preoccupava era proprio l’assenza d’inflazione, la macchina non ripartiva. Quando si è manifestata, per non stringere i cordoni, si è detto che proveniva solo da un momentaneo aumento del prezzo delle materie prime. Era vero, ma non era tutta la verità.
L’inflazione, einaudianamente nota come “la più iniqua delle tasse”, un tarlo che sottrae potere d’acquisto, quindi colpisce tutti. Ma mentre chi ha molti capitali può metterli al riparo, investendo in quel che rende più di quanto la moneta si deprezzi, chi non ne ha e spende tutto quel che guadagna registra solo una progressiva perdita, anche dei risparmi. Ma c’è il lato positivo: l’inflazione è un bene per gli indebitati, perché togliendo valore alla moneta fa diminuire il valore del debito. Il nostro è enorme. A patto, però, di non contrarne altro, magari per compensare gli effetti dell’inflazione (vedi contributi per le bollette), giacché sale il prezzo per avere capitali e si entra in una spirale micidiale (vedi esperienze latinoamericane).
Al comparire della pandemia si sono dovute varare odiose, ma necessarie limitazioni delle libertà personali. Fra queste anche le libertà economiche, con il blocco o rallentamento di attività produttive (da cui il rialzo delle materie prime, una volta ripartiti). In queste condizioni gli Stati hanno provato a dare con una mano quel che toglievano con l’altra. In Italia li abbiamo chiamati “ristori”. Questa economia del covid non può durare, non si può campare di trasferimenti finanziati a debito e, comunque, sia i debiti pubblici che la presenza pubblica nell’economia hanno superato i livelli raggiunti nel corso delle due guerre mondiali.
Alla graduale, e si spera veloce, restituzione delle libertà personali corrisponde una pari e non del tutto sincrona uscita dall’economia del covid. Detto diversamente: va a terminare il tempo in cui si sostiene chi non lavora, chi lavorò e chi lavora e produce. Non si saprebbe, altrimenti, chi mai possa sostenere i sostenitori.
In Ue, e segnatamente nell’area dell’euro, abbiamo un problema in più: sono rimasti gli spread dei tassi d’interesse, sebbene anestetizzati, ed è emerso lo spread dell’inflazione (in Germania è al 6, nell’euroarea al 4.9, in Italia al 4 in Francia al 3.4). In che genererà tensioni. Da qui la necessità di rivedere il patto di stabilità, che non significa affatto cancellarlo o tenerlo sospeso all’infinito.
Da tutto ciò deriva che, noi italiani, ci apprestiamo a utilizzare finanziamenti europei irripetibilmente indirizzati a chi ha maggiori difficoltà e che, già nel corso della loro erogazione, vedranno cambiare lo scenario retrostante. Se al mondo politico restano cinque minuti di tempo, questa è la principale faccenda di cui occuparsi.
La Ragione