Sull’arresto del fondatore di Telegram e le accuse di illiberalismo

Sull’arresto del fondatore di Telegram e le accuse di illiberalismo

Ma davvero cercare di regolamentare il Web e di responsabilizzarne gli attori sarebbero propositi illiberali? L’arresto, in Francia, del fondatore di Telegram Pavel Durov, l’avvio di un’indagine a suo carico da parte della Commissione europea e la sospensione di X decretata dalla Corte Suprema brasiliana hanno scatenato, naturalmente sui social, una valanga di polemiche. L’accusa principale è quella di coartare le libertà individuali: sia la libertà di impresa, sia la libertà di associazione dei singoli cittadini.
A ben guardare, però, buona parte degli odierni paladini della libertà non sembra provenire dal mondo liberale, ma da culture politiche che nulla hanno a che vedere con la tradizione che da John Locke, John Stuart Mill, Montesquieu e Adam Smith passa per Frederich von Hayek e Karl Popper fino al nostro Luigi Einaudi. A muovere l’accusa sono prevalentemente ex comunisti, ex fascisti e una moltitudine di giovani evidentemente adepti della nuova “religione digitale” che trova, semmai, in Jean-Jacques Rousseau la propria, eventuale, radice culturale. L’accusa è evidentemente fondata su un clamoroso equivoco. L’idea, cioè, che il liberalismo coincida grossomodo con l’anarchia. Niente regole, niente interventi pubblici, niente principi ispiratori. Ovviamente si tratta di un errore, dovuto probabilmente ad ignoranza. Non c’è stato, infatti, esponente del pensiero liberale che non abbia accompagnato la propria ricetta per uno Stato minimo all’interno del quale le potenzialità individuali si potessero liberamente realizzare, con la feroce critica ai monopoli e ai trust e con il principio per cui la libertà personale e quella d’impresa debbano necessariamente procedere di pari passo con il principio di responsabilità individuale.
Mai, nella Storia, un pugno di uomini ha avuto un potere economico e di condizionamento delle coscienze così colossale e sconfinato, il globo, come le Big Tech, i cosiddetti Giganti del Web. Il digitale ha rivoluzionato il mondo e l’intelligenza artificiale modificherà i profili, le dinamiche e i principi di tutte le professioni. I social hanno annullato il confine tra pubblico e privato, plasmato le dinamiche politiche e sociali, alterato la biologia e la neurologia umane. Se la conoscenza è, o dovrebbe essere, il presupposto della democrazia, la conoscenza ormai passa prevalentemente attraverso la Rete. La metà degli elettori si informa, già oggi, esclusivamente sui social nonostante il fatto che, come ha rivelato un’indagine del Mit di Boston, sui social le notizie false si diffondano sei volte più velocemente delle notizie vere.
Nel mondo reale esistono norme, da ciascuno di noi considerate di buonsenso, che obbligano alla riconoscibilità le persone (documento di identità in tasca, volto scoperto in strada), vietano comportamenti lesivi di libertà e diritti individuali e sociali, inibiscono ai minori diverse attività, attribuiscono ai direttori degli organi di informazione la responsabilità di tutto ciò che viene scritto, detto o mostrato dalla testata che dirigono. Cercare di introdurre queste regole basilari nel mondo del Web è la grande sfida della nostra epoca. Non sarà facile, e, come sempre accade nella vita e nel metodo scientifico, si procederà per errori. È possibile si rivelino errori anche quello francese e brasiliano. E’ possibile, ma non è certo. In ogni caso è presto per giudicare.
Tempo addietro Mark Zuckerberg dichiarò: “L’organizzazione che dirigo è più simile a un governo che ad un’impresa”. È vero, e proprio per questo Zuckerberg e soci devono accettare il confronto con gli altri governi (nazionali) e con le autorità internazionali, collaborando alla ricerca di regole condivise il più possibile ispirate al principio cardine del pensiero liberale, che non è il “liberi tutti” di stampo anarchico, ma la responsabilità individuale.
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