È davvero impressionante la somiglianza fra la piattaforma di richieste inviata alla stampa dei “gilet gialli” francesi (vedere in fondo) e il programma, in buona parte riversato nel “contratto di governo”, con cui i Cinquestelle si sono presentati agli elettori italiani il 4 marzo scorso. A riprova, se ancora ce ne fosse bisogno, che quella italiana non è una situazione politica “anomala” poiché i movimenti che se ne fanno interpreti al governo riflettono un sentire ormai comune a vaste frange dell’elettorato europeo.
Certo, si tratta di una sensibilità che si traduce spesso in richieste irrealistiche, demagogiche, in contraddizione le une con le altre, non riconducibili a una visione del mondo più o meno coerente o organica. Esse però possono essere sintetizzate con una parola che sembra essere il tenue filo rosso che le unisce: ciò che molti europei oggi cercano è protezione, sicurezza. E declinano questa richiesta sia dal punto di vista economico, come nel caso dei “gilet gialli”, sia da quello della legalità e dell’ordine pubblico. La garanzia di sicurezza o protezione della vita è, in verità, lo statuto costitutivo di ogni forma politica della modernità.
Lo Stato nasce per adempiere questo scopo e lo fa avocando a sé l’uso della forza, che, nelle sue mani e sotto il suo monopolio, diventa legittima. Lo Stato moderno però, nel garantire la sicurezza, vuole anche offrire un libero campo di gioco al sano conflitto delle opinioni e delle visioni del mondo, nonché alla libera intrapresa individuale. In questo senso, esso si pone come liberale o “Stato di diritto”.
Ora, invece, sembrerebbe che proprio questa dialettica sia entrata in crisi. In molti sembrerebbero oggi disposti a sacrificare quote non indifferenti di libertà in cambio di quella sicurezza e protezione che bene o male gli Stati occidentali hanno garantito negli ultimi decenni. Il fatto è che proprio questa garanzia sembra oggi essere venuta meno, o vacillare fortemente. E ciò genera ansia, preoccupazione, spavento. I “gilet gialli” si pongono come espressione di questo stato d’animo, soprattutto per la parte riguardante il malessere economico diffuso. Essi quindi si fanno portavoci di richieste sociali che un tempo non avremmo esitato a catalogare come “di sinistra”.
Ciò che però li differenzia dalla sinistra tradizionale mi sembra che sia, da una parte, la mancanza di ancoraggio ad una visione generale del mondo e ad una logica politica stringente, dall’altra, la mancanza di speranza e la connessa disillusione sulle possibilità del futuro. Il malessere più che dall’impoverimento delle nostre società, ancora per fortuna relativo, deriva in effetti dalla convinzione che per sé stessi e i propri figli sarà lecito aspettarsi in futuro sempre di meno.
Alla tendenza delle nostre società, che era stata quella di un progressivo allargamento della classe media, il futuro sembra oggi prospettare una riproletarizzazione dei neoborghesi. Proprio perché manca una visione generale o sistemica, che le vecchie classi proletarie avevano acquisito con la mediazione dei partiti (veri dispensatori della marxiana “coscienza di classe”), la tendenza prevalente è quella di chiedere sussidi e garanzie senza porsi il problema delle risorse: di voler spartire una torta senza capire che la torta rischia di diventare sempre più piccola. O, meglio, le risorse vengono viste come acquisite e definitive, in un gioco a somma zero, anche se ingiustamente accaparrate da “caste” di vario tipo. Le quali perseguirebbero i propri interessi non considerando minimamente i riflessi sulla vita delle persone delle loro politiche.
Il Macron patrocinatore di una rapida svolta ecologista e che non si pone il problema dell’incidenza che l’aumento delle tariffe del gasolio ha, anche e soprattutto psicologicamente, su una classe media impoverita o in via di impoverimento, è un esempio da manuale del fallimento delle élite politiche occidentali e insieme la miccia di questa sorta di jacquerie postmoderna che le strade e piazze parigine ci stanno in questi giorni offrendo.
Il “principio speranza” di cui parlava il filosofo tedesco Ernst Bloch, o semplicemente la fiducia nel futuro, ha abbandonato oggi i ceti deboli. Al contrario le élite, che per tutta la modernità avevano subito l’avanzata dei proletari e avevano maturato un sentimento pessimista sul mondo, guardano invece ora al futuro con l’ottimismo di chi sa che l’umanità si avvicina a un mondo, dominato dalla tecnica, che dischiude inaudite possibilità.
Questa inversione del sentimento dominante fra élite e popolo è un’altra delle contraddizioni del nostro tempo.
Corrado Ocone, startmagazine.it 4 dicembre 2018