Il 1942 può essere considerato un anno di svolta nello sviluppo storico del pensiero crociano. Ovviamente, “svolta”, per un pensiero compiutamente storicistico come quello di Croce, non è da intendersi come una frattura radicale, come un “voltar pagina” (come volle essere ad esempio la Kehre di Heidegger).
Più concretamente, la svolta consiste in questo caso in un riorientamento del suo pensiero, di una modificazione interna dello stesso svolgentesi lungo tre assi: una reinterpretazione del marxismo, che, come è noto, lo aveva interessato sin dagli anni dell’apprendistato filosofico (se ne era occupato già a fine Ottocento, prima dell’elaborazione del “sistema”); una critica dura alle posizioni liberalsocialistiche e poi azioniste; una riconsiderazione del cristianesimo.
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Critica del marxismo
Croce aveva sempre distinto le teorie di Marx dal metodo del suo pensiero. Se dal primo punto di vista egli ne aveva messo subito in luce i limiti teorici (teologismo politico, determinismo economico, convinzione della prossima crisi del capitalismo a causa delle proprie contraddizioni interne, ecc.), dal secondo si era detto debitore nei confronti di Marx, che aveva definito il “Machiavelli del proletariato”, perché gli aveva insegnato a diffidare delle “alcinesche seduzioni della Dea Giustizia e della Dea Umanità”.
Ora, però, Croce apre un altro fronte: quello del “comunismo”, diciamo così, pratico, o del “socialismo” reale o realizzato. E qui il giudizio è critico in maniera così radicale da riproporsi come una critica complessiva non solo dell’azione, ma anche del pensiero marxista.
Il punto di riferimento principale, per quanto concerne questo aspetto, è costituito dal saggio Per la storia del comunismo in quanto realtà politica, un saggio che Croce stese nel novembre 1941, su cui rimeditò l’anno successivo e infine pubblico, con qualche piccola revisione, nel febbraio 1943.
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Critica del liberalsocialismo e dell’azionismo
Come è noto Croce criticò molto presto, cioè proprio nel 1942, in un articolo uscito il 20 gennaio sulla sua rivista (Scopritori di contraddizioni), da un punto di vista filosofico, il programma liberalsocialista elaborato da Guido Calogero e Aldo Capitini.
Per lui, infatti, un concetto empirico come quello di giustizia non può assolutamente accompagnarsi a un concetto ideale, cioè a un valore assoluto, quale è quello della Libertà. Mettere insieme due concetti che operano su piani diversi, e che per una esigenza di igiene mentale e morale vanno tenuti distinti, significa dare vita a una sorta di “ircocervo”, cioè a un mostro.
La critica presto da teorica si fece politica, investendo le idee generali e le politiche concrete del Partito d’Azione, che intanto, sul tronco del movimento liberalsocialista e dei gruppi clandestini di “Giustizia e libertà”, era andato formandosi.
La parte dei suoi diari che prende il nome di Taccuini di guerra, e che va dal settembre 1943 a tutto il 1944, ha come una sorta di leitmotiv la critica all’azionismo: una critica continua, quasi ossessiva, a cui spesso si aggiunge la delusione e l’amarezza nel vedere tanti suoi discepoli e allievi aggregarsi a quel partito e farne proprie le idee.
“Ho lavorato a dare – scrive ad esempio il 13 novembre 1943- chiari e saldi concetti su quel che è il liberalismo, purgandolo non solo da miscugli democratico-demagogici che aprono la via alle dittature, ma da tendenze conservatrici e riportandolo alla pura tradizione del Cavour, che non era un conservatore ma un radicale; ed ecco che mi è stato contrapposto un intruglio di colorito liberale ma di realtà comunistica o, a ogni modo, dittatoriale, che, non osando chiamarsi apertamente socialismo e socialismo rivoluzionario, ha adottato il nome di Partito d’azione. Continuerò a combatterlo nel campo delle idee, perché esso diseduca le menti e le abitua a tenere insieme concetti contraddittori, che possono avere perniciose conseguenze pratiche; ma non è detto che i cervelli deboli e quelli rivoluzionari, o piuttosto confusionari, non abbiano, almeno per qualche tempo, il disopra contro gli spiriti seri e leali e chiari”.
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Riconsiderazione del cristianesimo
Sempre del 1942 è poi il celebre saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. Croce fino allora aveva sempre avuto un atteggiamento “illuministico” nei confronti del cristianesimo in genere e del cattolicesimo, e della Chiesa cattolica, in particolare, catalogando i primi due fra i miti e le concezioni trascendenti che il pensiero critico, cioè realistico, storico e dialettico insieme, deve smontare; e considerando la Chiesa e le autorità ecclesiastiche come potenze politiche e combattendo ogni forma di clericalismo e temporalismo secondo la più classica posizione laica o laicista.
Ora, rivede tutta la questione dal punto di vista della storia delle idee, e quindi della concezione morale, finendo però per suggerire sostanziali modifiche e riorientare l’intero edificio fino allora costruito.
Il cristianesimo viene ora visto come la più grande rivoluzione morale compiuta dall’umanità, come la posizione dell’uomo in quanto uomo, e cioè nella sua universalità, al centro della storia e della realtà. In un processo che il liberalismo avrebbe poi semplicemente continuato e affinato, depurandolo dai residui di trascendenza e secolarizzando le istituzioni e le idee già in germe elaborare da quel suo progenitore.
Il cristianesimo era perciò, in quest’ottica, non solo, l’antecedente del liberalismo ma anche l’elemento che quest’ultimo “superava” in senso hegeliano, cioè “conservandolo”. Indubbio era però poi il senso complessivo di questa riconsiderazione, che veniva giocata in un’ottica del tutto antitotalitaria.
Se per quanto concerne la prima strategia che gli intellettuali liberali usavano in quel torno di tempo per combattere il totalitarismo, quella che ne metteva in luce le caratteristiche razionalistiche, costruttivistiche e deterministiche, Croce non solo non aveva nulla da farsi perdonare ma era stato addirittura un antesignano di essa; per quel che concerne la seconda, cioè la messa in luce del carattere pagano o “barbarico”, materialista, che aveva segnato la “crisi della civiltà” occidentale, imponendo una ripresa della tradizione spiritualistica e cristiana, il filosofo napoletano aveva solo con la Storia d’Europa cominciato a parlare della Libertà come una “religione”, un atto di fede vissuta da coltivare o ripristinare.
Se dal primo punto di vista, Croce si trovava di fatto accanto, nella lotta, a Oakeshott, Popper, Hayek, nel secondo usava motivi che si ritrovano in Ortega y Gasset, Huizinga, o lo stesso suo amico e traduttore inglese Collingwood.
Questo riorientamento del pensiero di Croce, che finiva per avere potenzialmente un ricasco nella politica, si scontrò presto, e anzi risultò fin dal principio perdente, con la strategia culturale che per l’Italia avrebbe messo in piedi Togliatti. La data simbolica da considerare è, in questo caso, il 27 marzo 1944, allorquando, dopo un lungo viaggio e venticinque anni di esilio sovietico, sbarca nel porto di Napoli, in un apocalittico scenario di pioggia di cenere (c’era stata nei giorni prima quella che di fatto è a oggi l’ultima eruzione del Vesuvio) il compagno Ercoli.
Egli prende subito in mano le redini del partito di cui è leader in un’ottica di collaborazione con le altre forze politiche antifasciste che stanno cercando di dare un governo all’Italia (per il momento solo quella meridionale o “liberata”): un esecutivo che, in accordo con le forze alleate, prepari la transizione a un democratico assetto istituzionale del Paese.
Togliatti elabora perciò, con i discorsi e gli scritti, oltre che con l’azione concreta, in accordo con Mosca, un progetto di “via nazionale al socialismo”, dal punto di vista politico, e di “egemonia culturale” (da esercitarsi su intellettuali, case editrici, mezzi di comunicazione di massa, accademie, opinione pubblica), dal punto di vista intellettuale. In questa prospettiva, egli sul suo cammino si trova davanti due fronti, come ostacoli, il crociano e il gentiliano, mentre si prepara a utilizzare per i suoi fini, e in qualche modo a “strumentalizzare”, il pensiero di Gramsci.
La partita con gli intellettuali già gentiliani, che avevano un peso effettivo nei centri di potere culturale (e non solo un’influenza morale come i crociani), si rivela in qualche modo più facile. Sia per certe non effimere affinità politico-culturali fra il prassismo e antiparlamentarismo fascista e comunista, sia per la possibilità di allettarli con rinnovato potere.
Con Croce, per forza di cose, la battaglia dovrà essere più accorta e sottile, in considerazione soprattutto del fatto che egli era visto e giudicato negli ambienti internazionali come il campione dell’antifascismo morale e uno dei pochissimi intellettuali che, nel tempo delle ideologie contrapposte, aveva sempre tenuto ferma la barra della libertà senza “tradire”.
Il 15 aprile, intanto, in circostanze mai del tutto chiarite, senza che soprattutto la ricerca storiografica abbia mai potuto stabilire con certezza i mandanti, un nucleo di partigiani comunisti uccide in un agguato a Firenze Gentile. Ma poco importa individuare il mandante materiale dell’assassinio perché Togliatti ne imputa subito, con parole di una violenza inaudita, ai comunisti la responsabilità morale. Manda così un segnale chiaro e inequivocabile a quegli intellettuali ex gentiliani e ex fascisti che spesso erano stati formati intellettualmente e messi in cattedra dal filosofo siciliano, fino all’ultimo fedele a Mussolini e alla sua Repubblica di Salò.
Il messaggio, nemmeno tanto subliminale, era questo: “se venite con noi, non solo non vi sarà rinfacciata alcuna ‘colpa’ del passato, fungendo noi da ‘lavacro’ delle coscienze, ma presto nuovi onori e cattedre vi saranno restituiti e date”. Inutile dire che gli “sciagurati”, come la monaca di Monza, all’appello risposero. Tanto che già al funerale del maestro non si presentò nessuno o quasi di essi. Più complicata sarebbe stata, e in qualche modo fu, l’operazione di messa in scacco di Croce.
Togliatti dapprima tentò il colpo forte, tentando di screditare moralmente il filosofo napoletano, con cui pure era costretto a collaborare nei governi di liberazione nazionale, toccandolo proprio in quel che a lui tutti, soprattutto all’estero, gli riconoscevano: la coerenza antifascista, la non compromissione col vecchio regime.
Sul primo numero di Rinascita, che si pubblicò a Napoli con la data di giugno 1944, e che da subito si presentò come il principale strumento della battaglia culturale dei comunisti italiani, Togliatti recensì proprio il suddetto saggio di Croce sulla “realtà pratica” del comunismo. Fu una violenta stroncatura che dal piano intellettuale e politico si volse subito al giudizio morale.
Croce esigette la pubblicazione di una rettifica senza commenti nel secondo numero di “Rinascita” e Togliatti, per evidenti motivi politici, non poté non acconsentite. Troppo scaltro era però l’uomo per pensare però che fosse incorso in un incidente, che non avesse previsto anche la reazione crociana.
Il suo scopo era un altro: mandare, appunto, un altro preciso messaggio a intellettuali e operatori culturali. Ed esso, anche questa volta, arrivò puntuale a destinazione. Gli intellettuali di area crociana, o comunque da lui influenzati, certo anche per intima convinzione, cominciarono ad abbandonare politicamente il maestro, che voleva ricostituire il vecchio partito liberale, rinnovandolo sì ma tenendolo lontano da quelle contaminazioni socialistiche che invece per loro erano il segno del progresso e della modernizzazione.
Come ricorda Giuseppe Galasso, in quel frangente si diceva, anche fra gli intellettuali, che “il mondo va a sinistra”. Per lo più i suoi allievi aderirono allora al Partito d’Azione, l’oggetto degli strali quotidiani del filosofo. Di fatto, il filosofo si trovò isolato: fuori dal nuovo blocco culturale che si andava costituendo in Italia. Un blocco, cementato dall’antifascismo diventato dogma o ideologia, e che prevedeva sì la possibilità di non essere comunisti ma non quella di essere anticomunisti.
Laddove il liberalismo coerente è antitotalitario, cioè ugualmente antifascista e anticomunista. Una convinzione, quest’ultima, che, sempre in quel frangente, maturava in ampi strati della cultura mondiale, soprattutto anglosassone, da cui noi invece ci tenevamo lontani.
Croce, ormai ultraottantenne, continuò a fare il suo, quello che aveva fatto per tutta la vita, intrecciando rapporti intellettuali con i cosiddetti “liberali della guerra fredda” (ad esempio Hayek) e recensendo le loro opere (ad esempio, 1984 di Orwell e Buio a mezzogiorno di Koestler). Opere che, fra l’altro, trovavano ormai ostacoli persino ad essere tradotte in italiano e (e alcune lo sarebbero state solo tanti anni dopo).
L’immagine che di Croce veniva accreditata, e che poi si è trasmessa in noi delle generazioni successive, era quella di un pensatore “retrivo” e “provinciale”. In verità, era l’esatto opposto. [spacer height=”20px”]
Corrado Ocone, Il Dubbio 30 maggio 2017