Norberto Bobbio diceva: «La domanda di senso si allarga, si estende a tutta la nostra vita individuale, a tutta la storia dell’uomo, a tutto l’universo. Rispetto all’individuo, perché il dolore e non anche il piacere e non soltanto il piacere? Perché la sofferenza e non soltanto la gioia? Perché l’infelicità e non soltanto la felicità? Rispetto alla storia: perché l’oppressione e non soltanto la libertà? Perché la guerra, la violenza, le stragi e non soltanto la pace, il benessere e la fraternità? Rispetto all’universo intero, infine, la domanda fondamentale che comprende tutte le altre: perché l’essere e non il nulla? Non so se riesco a far capire la pregnanza di questa domanda che è davvero la domanda ultima. Perché ci sono cose, uomini, animali, piante, stelle, galassie, in una parola il mondo e non invece il non-mondo?».
Ineludibile, inestirpabile è la domanda filosofica, la «grande domanda», una richiesta di senso ultimo alla quale la scienza non risponde e non può rispondere, per principio, mentre le risposte tentate dai «grandi racconti» metafisici si sono risolte in una serie di fallimenti.
In ogni caso, insiste Bobbio (in Che cosa fanno oggi i filosofi?, 1962), le domande che traducono, che cioè sono versioni della «grande domanda», esistono e riemergono nonostante tutti gli sforzi compiuti per mostrarne l’illusorietà, il non-senso o addirittura la pericolosità. «L’esigenza di una risposta a queste domande c’è, queste domande ci sono. Il che spiega la forza della religione. Non è sufficiente dire: la religione c’è ma non dovrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare risposte».
E «proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea».
La «Grande Domanda», la richiesta di senso ultimo riemerge inestirpabile nonostante tutti gli sforzi e tutti i tentativi di rimuoverla. Non la elimina la fisica, non la cancella la teoria evolutiva.
I valori della scienza e quelli della fede non sono inconciliabili, sono piuttosto incommensurabili e quindi compatibili: rispondono a domande differenti. Galileo: la scienza ci dice «come vadia il cielo», la fede «come si vadia in cielo».
Il rapporto tra scienza e fede non è quello di un aut-aut, è quello di un et-et.
Ora, però, «benché l’uomo sia innanzitutto homo religiosus, della spaventosa scristianizzazione e laicizzazione della nostra civiltà nessuna persona onesta verso se stessa può ormai dubitare». Questo scrive Wilhelm Röpke in Al di là dell’offerta e della domanda.
Ma un’Europa desacralizzata, che pare aver dimenticato le idealità cristiane quando non le rifiuta o addirittura le calpesta, è ancora Europa?
E sempre Röpke, circa sessant’anni fa, annotava: «Sono giunto così alla radice di un pensiero che spero condiviso da molti: sono sempre stato riluttante a parlarne, perché appartengo a quella categoria di persone che portano malvolentieri in piazza i propri convincimenti religiosi. Oggi dico senza mezzi termini: la malattia della nostra civiltà ha le sue radici più profonde nella crisi spirituale e religiosa ch’è in ogni individuo; e solo nell’anima di ogni individuo può trovare il proprio superamento. Benché l’uomo sia innanzitutto homo religiosus, tendiamo sempre più, da un secolo a questa parte, a fare a meno di Dio, mettendo al suo posto l’uomo, con la sua scienza, con la sua arte, con la sua tecnica e con il suo Stato, tutti lontani da Dio o addirittura senza Dio. Verrà un giorno in cui ciò che ora è chiaro soltanto a pochi apparirà chiarissimo a tutti: si vedrà che questo tentativo ha creato una situazione incompatibile con la vita etica e spirituale dell’uomo, il quale non potrà continuare a esistere così, malgrado la televisione, le autostrade, i viaggi di piacere, gli appartamenti confortevoli».
La malattia spirituale individuata da Röpke, e cioè la scristianizzazione dell’Europa, ha successivamente via via infettato sempre più larghi strati delle popolazioni europee. E proprio il tratto più importante dell’identità dell’Europa, vale a dire il messaggio cristiano, viene da più parti oggi messo in discussione, quasi ospite indesiderato nella propria casa.
È quanto accaduto, in modo eclatante, allorché – per iniziativa dell’allora presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, sostenuto da un «libero pensatore» ministro belga – si è deciso che dal Preambolo della Costituzione europea venisse cancellato il richiamo alle radici cristiane dell’Europa.
E, in altri contesti, cosa analoga è accaduta e accade di continuo, a più riprese, con la richiesta che, per esempio, venga tolto il crocifisso dai luoghi pubblici, come i tribunali o ancor più dalle scuole, o che venga vietato l’allestimento del presepe negli asili e in tutti gli altri ordini di scuole e in ogni altro edificio pubblico.
E ciò – si dice – per la ragione che si tratterebbe di «simboli» che offenderebbero quanti credono in fedi diverse dal Cristianesimo.
Viene qui subito da chiedere: e per quali mai ragioni fedeli di altri credo, fuggiti dai loro Paesi dilaniati dagli orrori del fondamentalismo, dovrebbero sentirsi offesi da «simboli» e «tradizioni» di una fede – quella cristiana – costitutiva di una civiltà disposta ad accoglierli e a strapparli dalla morte e dalla fame?
Tutti costoro dovrebbero piuttosto guardare con rispetto a «simboli» e «tradizioni» di una civiltà che affonda le proprie radici nel messaggio di Colui che è morto in croce. E all’attenzione di quanti, in nome di un laicismo – non di rado dai tratti fondamentalisti – immaginano una Europa sconsacrata, mi permetto di sottoporre un pensiero di Thomas S. Eliot: «Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura; e allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».
E, per concludere, un ammonimento di Antonio Rosmini: «Chi non è padrone di sé, è facilmente occupabile». E una amara constatazione di Edmund Husserl: «Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza».
Dario Antiseri, Il Giornale 22 dicembre 2017