Secondo un finanziere italiano di successo e di provata esperienza, l’attuale progetto di legge di bilancio tutto fatto di spese di parte corrente improduttive fra loro contraddittorie, con un deficit, che danneggia la crescita generando una (quasi) recessione, ci riporta indietro di 50 anni: vale dire al 1968. Le analogie sono impressionanti, a partire dal motto «vogliamo tutto», riferito alle spese correnti che generavano deficit e debito pubblico e un alto tasso di interesse, con uno spread, fra l’alto costo del denaro in lire, aggravato dall’inflazione, rispetto a dollaro e a marco, con cui la nostra moneta si deprezzava.
Programmi di spese fra loro incoerenti all’insegna della richiesta del «cambiamento», dettato da assemblee di base e piazze, come espressione di democrazia diretta. L’argomento era anche allora che bisognava che le istituzioni vi si adattassero, perché lo richiedeva la volontà del popolo, contro la presunta austerità del venticinquennio precedente. Allora sorse una alleanza contro natura, denominata «compromesso storico» che ricorda concettualmente il «contratto di governo».
Aldo Moro, che cercava di tenere in piedi quel modello smussandone le linee estremiste lo aveva definito col termine «convergenze parallele». Ma la convergenza che lo fece implodere stava nel danno che faceva la sommatoria di richieste costose e contraddittorie. L’evento che seppellì il compromesso fu una manifestazione spontanea a Torino, nell’ottobre del 1980, dei quarantamila quadri intermedi ed operai, che volevano il ritorno alla normalità produttiva nella Fiat: che ricorda molto da vicino la manifestazione spontanea dei trentamila Si Tav in piazza Castello a Torino, per chiedere una svolta nella politica del governo con l’investimento produttivo, per il rilancio dell’economia.
Ma la montagna di debito pubblico generatrice di inflazione fu un fardello pesante contro cui dovettero lottare tutti i governi di centro sinistra degli anni ’80, per evitare che la lira uscisse dal rapporto di cambio quasi fisso con le monete degli altri Paesi europei, che serviva a internazionalizzare e far fare un grande salto in avanti, alla nostra economia. Quel fardello rimase perché le leggi di bilancio venivano gravate di nuove spese, con votazioni a scrutinio segreto, richieste di pensioni anticipate per quarantenni e trentacinquenni e la difficoltà di controllo dei bilanci del servizio sanitario nazionale. L’Italia è entrata nel sistema monetario europeo nel 1997, dopo aver accantonato la riforma graduale delle pensioni del governo Berlusconi.
Il retaggio del debito e le mancate riforme, da allora, ci hanno accompagnato, insieme alla grande crisi. Ma nel 2011, con il governo Berlusconi, il debito pubblico era il 116% del Pii contro il 132 attuale. Sarebbe bastato che quel governo non fosse sostituito da quello non eletto di Monti, perché potesse beneficiare delle politiche monetarie permissive della Bce e continuare nelle riforme graduali e negli investimenti, che avevano portato la disoccupazione prima della crisi al 6% mentre ora a fatica scender sotto il 12%. Vogliamo tornare indietro di 50 anni, con un contratto di governo surrogato del compromesso storico e con il «vogliamo tutto»?
Francesco Forte, Il Giornale 30 novembre 2018