L’ Europa non riesce più a decidere e lo dimostrano le difficoltà che hanno i 28 capi di Stato e di Governo nel trovare un accordo sull’ immigrazione: oltre alla fiducia, mancano gli strumenti. La strada più ovvia sarebbe quella di una maggiore integrazione, ma ciò implicherebbe un’ulteriore cessione di sovranità, con il rischio concreto di alimentare sentimenti anti europei. E, infatti, i governi latitano. Che fare allora? Una soluzione ce l’avrebbe il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che in un intervento all’ Ambasciata tedesca di Roma lo scorso martedì ha dichiarato senza tanti giri di parole che l’alternativa a più integrazione “è più regole”, a cominciare da quelle fiscali. Regole che, però, vanno rispettate perché finanze pubbliche fuori controllo rappresentano una minaccia per la stabilità dell’area. Per Weidmann, quindi, la soluzione – almeno nel breve periodo – consiste in una maggiore disciplina di bilancio e non in una maggiore flessibilità come chiede l’Italia.
A dire il vero, a chiedere flessibilità ha cominciato proprio la Germania nel 2003, quando insieme alla Francia violò il Patto di Stabilità e Crescita nonostante l’opinione contraria della Commissione all’ epoca presieduta da Romano Prodi. Uno strappo inaspettato che aprì la strada verso un ammorbidimento delle regole: il patto fu, infatti, riformato nel 2005 con l’introduzione del ciclo economico.
Nel 2011, in piena crisi, il Patto fu di nuovo modificato, questa volta in senso opposto. Prevalse l’impostazione che la crisi fosse anche il risultato di regole troppo flessibili e così furono firmati il Six Pack, il Two Pack e il Fiscal Compact. Tuttavia, con il perdurare della recessione, fu evidente che i paesi avevano necessità di disporre di maggiori spazi fiscali. Nel gennaio 2015 la Commissione pubblicò, quindi, delle linee guida per specificare se e come derogare – in via del tutto temporanea – dalle regole vigenti: il compromesso tra rigore e flessibilità sembrava raggiunto. Tuttavia, questo nuovo impianto che Weidmann suggerisce di rafforzare – anche attraverso il ricorso più frequente a sanzioni –, non sembra funzionare al meglio. Per almeno due motivi. In primo luogo, il processo decisionale è troppo lungo. La Commissione ci mette troppo tempo per dare il via libera all’attivazione delle clausole di flessibilità. Basti pensare che l’Italia, che ha richiesto nell’ottobre dello scorso anno circa mezzo punto percentuale di Pil di flessibilità (in aggiunta a quella già accordata nel luglio dello stesso anno), aspetta ancora una risposta da Bruxelles che arriverà solo a metà mese. Nel frattempo, si è trovato l’escamotage di fissare il disavanzo al 2,3 per cento, una via di mezzo tra il 2,2 per cento deciso a settembre e il 2,4 per cento che si raggiungerebbe se tutta la flessibilità richiesta (inclusa quella relativa alla spese per i migranti) venisse accordata. Una scelta non priva di costi, perché obbliga il governo ad un “aggiustamento amministrativo” (il termine manovra è stato rottamato) e a dover gestire una situazione di incertezza (quante sono le risorse disponibili?). In secondo luogo, il processo decisionale non appare sufficientemente trasparente. Chi decide veramente sulla flessibilità? Bruxelles o Berlino come sostengono in molti? Non è un caso, infatti, se all’ultimo vertice italo-tedesco la Merkel ha dovuto precisare (cosa assai inusuale) che sulla flessibilità non è lei l’interlocutore istituzionale bensì il presidente Junker. Per far fronte a queste ambiguità l’esecutivo comunitario dovrebbe fare uno sforzo per rendere le regole più chiare e i processi più trasparenti e veloci. Altrimenti, il rischio è che le decisioni di Bruxelles vengano percepite come il risultato di un processo non democratico, in cui alcuni paesi contano più degli altri. Proprio ciò che favorisce l’antieuropeismo.