Un vigile urbano lascia la macchina di servizio nello spazio riservato ai disabili. Errore. Aggravato dalla divisa e dalle insegne sulla vettura. Una foto finisce sui social network e comincia la corrida degli insulti. Il vigile ammette l’errore, si scusa e si automulta. Inutile, la corrida continua. Non regge e si suicida. Da quel momento tutti a dire: colpa dei social. Sicuri?
Nel nostro diritto, ovviamente, esiste una proporzione fra l’errore che commetti e la punizione che meriti, fra l’infrazione e l’ammenda, fra il reato e la pena. Quella proporzione va a farsi benedire se, per una qualche ragione, la notizia diventa ghiotta per il mercato dell’informazione. Se all’inizio di un procedimento penale la notizia viene ripetuta cento volte al giorno per settimane, naturalmente raccontando perché e di cosa è accusato il Tizio, poi arrivano i verbali di chi lo accusa, poi la conferenza stampa della procura, poi la richiesta di rinvio a giudizio, poi … e così via, quando, dopo dieci anni, verrà assolto quella sentenza sarà del tutto inutile. Nessuno ne darà neanche notizia o finirà fra le brevi di cronaca. E se anche venisse condannato a una pena proporzionata al reato quel che ha già subito è certamente sproporzionato.
I latranti dei social, pertanto, non sono figli di nessuno, ma di una andazzo che dura da molti anni, secondo cui la condanna pubblica, fuori da ogni procedura e garanzia, è giusta in sé. Gli anonimi con profili fasulli sono figli di giornalismo blasonato e cattedre alla ricerca di popolarità. La differenza di linguaggio, l’assenza o presenza di turpiloquio, è un dettaglio. La musica è quella.
La giustizia deve essere dura, ma la durezza diventa ingiusta se amministrata fuori dalle regole del diritto. Quel vigile non ha retto, ma è la civiltà che schianta.