Venerdì 17 marzo si celebra l’anniversario dell’unità d’Italia. Da molto tempo avremmo voluto incontrare l’artefice, il demiurgo indiscusso, di quel processo politico che, fra mille avversità e numerose circostanze fortunose, diede vita a quello Stato nazionale che mise definitivamente fine all’assetto europeo uscito nel 1815 dal Congresso di Vienna.Da tempo avremmo voluto incontrare Camillo Benso Conte di Cavour, il primo Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, colui che dedicò l’intera sua esistenza a portare a compimento un’opera sino al quel momento ritenuta inimmaginabile.
Finalmente, il Conte, dopo molte insistenze e non poche titubanze, ha deciso di riceverci e di soddisfare la nostra curiosità sulle idee che ha maturato in questi lunghi 158 anni che ci hanno separato dalla sua memorabile impresa.
Ci riceve a casa sua Cavour, nel suo Palazzo, circondato da mille carte e un’innumerevole quantità di giornali e riviste d’ogni genere. Sempre lo stesso il Conte, con qualche chilo di troppo, la barbetta scompigliata e lo sguardo vivace dietro gli occhialini tondeggianti.
T: Buongiorno Conte, che gran piacere rivederla. Come sta?
C: Buongiorno. Si accomodi. Come sto? Come vuole che stia?
T: La vedo crucciato. Come mai? Tra poco sarà l’anniversario dell’Unità d’Italia, la ricorrenza del compimento della sua straordinaria opera di politico, statista e diplomatico. Non sarebbe il caso di festeggiare?
C: Festeggiare? Lei vuole scherzare spero? Cosa dovrei festeggiare, le condizioni attuali in cui versa il Paese per il quale ho speso tutta la mia vita?
T: Vedo che vuole entrare subito nel vivo della nostra chiacchierata. E’ proprio quello che avrei voluto chiederle per iniziare. Oggi come vede l’Italia, caro Conte? Come vede l’età matura della sua creatura?
C: Non sono bastati venti anni di dittatura fascista e sessant’anni di ideologie cattolica e comunista per riscoprire quell’amore per la libertà, il progresso e la ragione che consentì l’unificazione. E ora… Ora abbiamo toccato il fondo, il punto più basso.
T: E’ informato anche degli avvenimenti politici recenti, a quanto pare.
C: Come vuole che passi il tempo che l’eternità mi ha riservato? Leggo la stampa italiana ed estera senza sosta. Faccio fatica a trovarne di giornali liberali, sopratutto in Italia; ma riesco a farmi un giudizio preciso su quello che sta accadendo.
T: E cosa sta accadendo secondo lei Presidente? Posso chiamarla Presidente, vero?
C: Certo che può! Sono stato il primo Presidente del Consiglio italiano! Per rispondere alla sua domanda, sta accadendo che avete messo il Paese in mano ad una combriccola di avventurieri senza alcuna capacità di analisi e di giudizio sulle cose del mondo. Un’orda barbara, peggiore di tutte le precedenti che, di certo, non hanno brillato nemmeno esse.
T: Sta dicendo che gli attuali governanti sono incompetenti e poco istruiti?
C: Sto dicendo esattamente quello che ho detto.
T: Non le sembra però un giudizio troppo duro, alla luce dell’evoluzione dei sistemi istituzionali verso le democrazie di massa? Non siamo più nel 1850.
C: Qualsiasi governo ha bisogno di gente preparata ed istruita. Gente competente, che ha viaggiato, conosciuto il mondo, che si è confrontata con quello che vi è fuori dalle quattro mura in cui vive quotidianamente.
T: Vuole dire che tutti i governanti dovrebbero essere Cavour?
C: Ascolti, io ebbi l’ambizione, sin da ragazzo, di governare il Piemonte e poi di unificare l’Italia intera. Ma fu un’ambizione che coltivai per anni, giorno dopo giorno. Mi preparai al governo del mio paese studiando tutto ciò che era possibile esaminare in quel periodo. Mi occupai della povertà e degli strumenti necessari a farvi fronte, approfondii l’analisi dei sistemi istituzionali inglese e francese, lessi e ascoltai Guizot, Tocqueville. Mi confrontai con le opere di Adam Smith e con tutto ciò che rappresentò in quel momento una novità culturale in campo europeo. Mi buttai a capofitto nell’economia politica, nonostante il volere contrario di tutti i miei parenti che ritenevano la materia un’astrusità inaccettabile.
T: Ed è bastato tutto questo?
C: No. Avvertii, in aggiunta, la necessità di viaggiare per tutta Europa, di comprendere cosa stesse accadendo negli altri Paesi. Lei saprà che fui di casa a Ginevra e a Parigi, che conobbi i principali intellettuali e politici dell’epoca, che fui in Inghilterra più volte, prima d’assumere responsabilità di governo, per ammirarne il sistema parlamentare e lo sviluppo impetuoso della rivoluzione industriale.
T: Beh si, una formazione intellettuale completa, Conte. Non c’è che dire, in effetti. Alla quale si deve aggiungere la sua esperienza di imprenditore agricolo e speculatore in borsa.
C: Coltivai centinaia d’ettari di terreno, sperimentai nuove tecniche di produzione con ardore e passione, vendetti e comprai capi di bestiame e tonnellate di guano ai quattro angoli d’Europa. Imparai a conoscere, anche a mie enormi spese, i meccanismi dei mercati finanziari; alimentai imprese ferroviarie e di navigazione. Partecipai alla fondazione d’istituzioni bancarie.
T: Tutto questo prima di entrare nel Parlamento sabaudo?
C: Si, tutto prima del 1850.
T: A questo punto dobbiamo dire che ha fatto anche il giornalista?
C: Si, per il “Risorgimento”. La mia prima vera esperienza di impegno pubblico e politico. E guardi che non ci occupammo mica di quisquilie come fa la maggior parte dei giornali che mi tocca leggere adesso. Noi ci scontrammo su temi d’ampio respiro sui quali ci giocavamo il futuro del Paese. Battaglie senza esclusione di colpi sullo Statuto, sul regime liberale, sulle limitazioni del potere regio, sulla libertà religiosa, sulla libertà di stampa, sulla libertà delle imprese e dei commerci, sulla politica internazionale.
T: Va bene Conte, dobbiamo ammettere che lei arrivò in Parlamento e al Governo con quello che potremmo definire un adeguato curriculum di formazione intellettuale e d’esperienze pratiche. Ma oggi è diverso. Oggi, come le dicevo, c’è la democrazia di massa. Ai suoi tempi bisognava convincere poche centinaia di elettori per diventare parlamentari. Adesso c’è un’opinione pubblica composta da milioni d’individui che vuole eleggere l’uomo mediocre e alla quale interessano idee semplici, da comprendere in poche battute, pronunciate da persone nelle quali ci si può rispecchiare. Niente élite, insomma.
C: La democrazia è quel sistema di governo all’interno del quale il popolo rischia in ogni momento di farla fuori dal vaso. Non avete letto o non avete mai compreso abbastanza l’immensa opera di Tocqueville. Senza élite, non v’è governo, non v’è progresso e non vi sarà mai pace sociale. Le classi dirigenti hanno il compito di avvertire per tempo disagi e malumori e d’adottare tutte le misure necessarie a non fare esplodere la rivoluzione (perdoni, ma come saprà sono stato sempre ossessionato dalle rivoluzioni sanguinarie). Ma non s’è mai visto un popolo che tenti di autogovernarsi senza pagare il prezzo di centinaia di teste ghigliottinate e di disordini incontenibili nel campo economico e politico.
T: Abbiamo capito, caro Conte: al Governo del Paese in questo momento ci sta gente senza arte né parte. Questa rischia d’essere però una critica troppo generica e persino classista. Cosa ci dice, invece, dei singoli provvedimenti fin qui adottati?
C: Da dove vuole che cominci?
T: Cominciamo dal reddito di cittadinanza?
C: Come le ho già detto, da giovane studiai il sistema della carità privata, mettendolo a confronto con quello dell’assistenza pubblica. Io ebbi il tempo di vedere i primi effetti sociali della rivoluzione industriale e le assicuro che non fu per niente un bello spettacolo. A differenza di quello che hanno sempre pensato i miei detrattori, però, non fui un liberista insensibile alle questioni sociali. Fui sempre dell’opinione, ad esempio, che fosse compito dello Stato fare fronte alle situazioni di povertà economica e quindi in linea di principio, potrei anche essere d’accordo a forme d’aiuto per chi non ha mezzi di sussistenza derivanti da attività lavorativa.
T: Questo è davvero interessante Conte, non me l’aspettavo. Continui.
C: Ma devono essere precisate alcune condizioni. Ebbi modo di pronunciare un discorso su questo argomento di fronte al Parlamento sabaudo. La sussistenza non deve scoraggiare la ricerca di una occupazione, cosicché qualsiasi somma erogata dallo Stato non deve mai essere superiore e nemmeno equivalente al salario minimo che il lavoratore potrebbe reperire svolgendo qualsiasi lavoro. E giammai le trasformazioni tecnologiche dei settori produttivi che determinano una diminuzione dell’impiego della forza lavoro possono giustificare l’arresto del progresso e dell’avvenire.
T: Facile a dirsi, Conte; un po’ più difficile a farsi. Le trasformazioni tecnologiche creano molta disoccupazione e molti disagi sociali. Come del resto la libertà dei commerci. Da qui alcuni provvedimenti anche del Governo attualmente in carica.
C: E cosa vorreste fare? Arrestare il progresso? Fermare lo sviluppo scientifico e privare imprese e consumatori della libertà di scambiare beni e servizi in ogni dove nel mondo e dell’opportunità di trarne i conseguenti benefici?
T: Conte, non è così semplice. Oggi l’opinione pubblica è sempre sul piede di guerra, l’elettorato esige immediatamente risposte adeguate e protettive. Il dissenso non si può più arginare come nell’800.
C: Ma lei con chi crede di parlare? Pensa che io non sappia cosa significhi avere a che fare con l’opinione pubblica o non sappia cosa voglia dire trattare con chi subisce gli effetti negativi delle trasformazioni tecnologiche e dei liberi commerci?
T: Se ne ha consapevolezza, saprà che non ci sono strade facili da percorrere per uscire da questa situazione e che ciò che fa questo Governo potrebbe anche ritenersi comprensibile.
C: Di strada ve n’è una sola. Quella di parlare chiaro e in maniera onesta al popolo e di non cedere davanti alle emozioni dell’opinione pubblica. Nel 1853 la folla inferocita tentò d’appendere la mia testa al cappio. Avevo varato le riforme economiche, mi ero battuto con successo per ridurre i dazi doganali e l’avevo fatto anche in maniera unilaterale, senza aspettare la diminuzione delle tariffe da parte degli altri Stati i cui produttori avvantaggiavo con la mia politica economica. Gli effetti di breve periodo fecero letteralmente imbestialire coloro che non godettero più della protezione doganale e molta gente comune che ai quei settori economici era legata. Ci fu una sollevazione generale e vennero a prendermi a casa, non credo proprio per fare una partita a Whist, il mio gioco di carte preferito.
T: Come andò a finire?
C: Fini che non ero in casa, per fortuna. Ma né io, né il Governo di cui facevo parte mollammo di un centimetro. Eravamo assolutamente convinti della bontà del libero scambio, del fatto che nel lungo periodo i prezzi si sarebbero abbassati e i consumatori ne avrebbero beneficiato. Eravamo fermi nell’opinione che al riparo della protezione dei dazi le imprese piemontesi sarebbero rimaste inefficienti, non avrebbero avvertito il pungolo della concorrenza e non avrebbero sentito l’esigenza di sfruttare lo sviluppo tecnologico per migliorare qualità dei beni e dei cicli produttivi. Eravamo convinti che senza aprire la nostra economia saremmo morti in brevissimo tempo. E abbiamo avuto ragione. Dovrebbe essere una lezione utile anche oggi. D’altronde non è giusto l’imporre una tassa alla generalità dei cittadini in favore di una classe speciale e poi è risaputo, come ho già detto, che mercé il dazio protettore i produttori si addormentano e son lentissimi nei progressi che altrove si fanno celermente.
T: A questo punto mi viene da chiederle se ha seguito la polemica sulla realizzazione della linea ferroviaria cosiddetta TAV?
C: Certo che l’ho seguita?
T: Dunque?
C: Dunque cosa? Dovrei stare qui a spiegarle perché un’infrastruttura che completa una linea che attraversa l’intera Europa dovrebbe essere realizzata all’istante e senza indugio? Dovrei spiegarle perché mi battei per realizzare il traforo del Frejus? Dopo 160 anni non avete ancora capito che le infrastrutture che consentono collegamenti di uomini e trasferimento di merci da un posto all’altro del mondo rappresentano le fondamenta di qualsiasi sviluppo economico?
T: E l’analisi costi benefici?
C: Merde alors, ancora con questa scemenza? Secondo lei noi facemmo l’analisi costi benefici delle reti ferroviarie o dei ponti e dei canali che costruimmo? Io dissi solo questo allora e tanto fu sufficiente: “L’Istituzione del sistema completo delle ferrovie, facilitando comunicazioni, diminuendo i costi di trasporto e sopratutto sollecitando l’attività e le energie degli animi intraprendenti, di cui il Paese in fondo abbonda, contribuirà potentemente al rapido sviluppo dell’industria italiana”.
T: Da quanto mi ha detto finora, caro Conte, mi pare di capire che lei avrebbe da ridire anche sulle politiche sovraniste di questo Governo. Politiche nelle quali qualcuno vede a tratti anche del nazionalismo?
C: Sovanismo e nazionalismo: due enormi sciocchezze! Cosa vorreste fare? Crescere economicamente chiudendovi al mondo? Commerciare solo fra voi italiani? O forse, (ride) volete muovere guerra a tutti i Paesi che ospitano le imprese che fanno concorrenza a quelle del nostro Paese? Volete andare fieri di un successo economico che sarebbe frutto della mancanza di confronto con il resto del mondo? No, ci sono (ride ancora più di gusto); volete arricchirvi a forza di spesa e debito pubblico!
T: Eh no, Cavour, questo non può dirlo. Proprio lei che indebitò il Piemonte all’inverosimile, non può deridere i governi italiani sull’eccesso di debito pubblico.
C: Invece posso farlo! Eccome, se posso farlo! Certo che indebitai il Piemonte. Contraemmo prestiti con Rothschild e con Hambro per decine di milioni di lire. E se ci tiene a saperlo il prestito che mi diede più orgoglio fu quello rifiutato dai predetti finanzieri ma che fu sovvenzionato dal popolo sabaudo e dai patrioti italiani sparsi per la penisola affrontare la guerra d’Unità. Ma vede, lei ignora che io col debito feci sostanzialmente due cose (se permette grandiose entrambe); ammodernai il Piemonte rendendolo lo Stato più progredito fra quelli che avrebbero formato l’Italia e finanziai, per l’appunto, l’Unità del Paese. Invece di dire sciocchezze sul debito pubblico contratto dal Conte di Cavour tenga a mente che con quel denaro costruimmo 400 chilometri di ferrovie. Ha capito? E potrei aggiungere: fabbriche dappertutto, il traforo delle Alpi, le banche, l’arsenale a La Spezia. Noi col debito realizzammo le infrastrutture indispensabili a sostenere l’economia di un Paese moderno! Non lo abbiamo certo fatto sottoscrivere per darlo a sbafo in stipendi pubblici, a gente che vive d’assistenzialismo e a tutti coloro che lo sprecano per ogni dove lungo 1.500 chilometri di una nazione martoriata.
T: Ma lei è anche il sostenitore del pareggio di bilancio. Come si concilia questa propensione con la politica del debito pubblico?
C: Capisco che non ha inteso un bel nulla! La condizione ordinaria deve essere quella del pareggio di bilancio. Già nel 1860 vi lasciai l’insegnamento secondo il quale se non giungiamo a entrare in una via che ci conduca al pareggio delle entrate colle spese l’Italia si sfascerà. Ed infatti mi pare che più volte l’Unità è stata messa in pericolo in questi anni proprio per questa ragione. Ma quando un Paese ha necessità d’investimenti il debito pubblico deve essere indirizzato esclusivamente a questa priorità e non certo alla spesa corrente.
T: Dunque anche le altre infrastrutture devono realizzarsi col debito pubblico?
C: Se fosse possibile di svolgere l’industria privata, al punto che essa si potesse incaricare delle grandi opere pubbliche che si farebbero nello Stato, darei di buon grado la preferenza a questo sistema; ma ove questo spirito pubblico non si svolgesse in modo tale da comprendere da sé solo le opere di pubblica utilità imperiosamente richieste, crederei che piuttosto che non farle, sarebbe meglio se venissero eseguite dal Governo col mezzo dei prestiti.
T: Mi faccia capire, Presidente, lei sostiene un’economia aperta al mondo, una soglia non elevata di debito, il pareggio di bilancio e bassi livelli di spesa pubblica.
C: E’ stato da sempre il programma sul quale avrei desiderato costruire l’Italia. Ma non ne ebbi il tempo.
T: E lo Stato cosa dovrebbe fare?
C: Lo Stato deve fare ciò che l’impresa individuale e la libera cooperazione dei cittadini non sono in grado di realizzare. Ma niente più di questo. Soprattutto, deve tenere un livello di tassazione decente e non oppressivo, perché è verità incontrastata che le imposte, spinte oltre certi limiti, cessano dall’essere produttive, od almeno non possono riscuotersi senza produrre tali e sì gravi perturbazioni da cagionare in fin dei conti al pubblico erario più danni che utile. Lo Stato, inoltre, deve approntare un sistema infrastrutturale competitivo e un’ordinamento giuridico massimamente liberale in tutti i suoi ambiti. Quanto all’abitudine oramai invalsa di utilizzare la tassazione progressiva la mia opinione rimane quella di sempre e cioè che si tratti dell’iniziamento di un sistema di illegalità e violenza.
T: Mi perdoni, Conte, ma lei non è il padre della nazione italiana?
C: Si è vero. E con ciò?
T: Non dovrebbe stare dalla parte di chi ritiene necessarie politiche in difesa della nazione. Insomma dalla parte anche dei nazionalisti?
C: Ma non dica idiozie! Io feci lo Stato italiano e la nazione italiana perché l’Austria, il papato e, a mio giudizio, anche i Borboni, opprimevano una comunità di milioni di persone che reclamava libertà, autonomia e indipendenza. Io volli l’Italia unita in contrapposizione alla Vienna di Metternich che ci opprimeva sotto ogni punto di vista. Niente istituzioni parlamentari, niente rappresentanza, zero libertà di stampa, di religione, di movimento e d’associazione. La polizia austriaca controllava anche me ogni volta che varcavo i confini e mi teneva sott’occhio solo perché esprimevo le mie opinioni. E secondo lei avere fatto l’Italia nel segno della lotta della libertà contro l’oppressione reazionaria mi dovrebbe annoverare dalla parte dei nazionalisti o degli scriteriati sovranisti?
T: Ma insomma Cavour! Lei è il padre dell’Italia unita, ma non è sovranista e nemmeno nazionalista. Stai a vedere che scopriamo che il Conte è europeo.
C: Ci può scommettere che fui, sono stato e sono europeo! La mia formazione, la mia cultura, i miei modelli furono tutti europei, come le ho già illustrato. E le dirò una cosa che farà dispiacere le orde di sovranisti, nazionalisti e anti globalisti che ammorbano oggi il Paese: l’Italia fu unificata prendendo a modello riferimenti culturali, istituzionali ed economici europei.
T: Conte lei rischia un altro attentato alla sua vita a dire queste cose oggi.
C: Facciano pure! Scoloriscano la mia memoria! Abbattano pure le mie statue! Ma sappiano, sopratutto i governanti attuali, che l’Italia fu costruita su modelli istituzionali, quali la monarchia costituzionale e la centralità del parlamento, di derivazione inglese e poi francese. Ricordino che la loro “Patria” fu eretta su modelli di sviluppo economico recepiti dalla rivoluzione industriale inglese e dallo sviluppo delle attività finanziare del centro e del nord europa. Riconoscano che l’anelito di libertà che rese possibile l’Unità d’Italia soffiò dalle coste degli Stati Uniti prima e dalla capitale francese dopo. L’Italia nacque e fu pensata per vivere dentro la temperie europea.
T: Ho capito Cavour, lei non arretra d’un millimetro e non concede nulla alle tendenze politiche attuali. A questo punto ho l’ultima domanda. Cosa manca all’Italia.
C: All’Italia, direi meglio, agli italiani e ai loro governanti, manca tutto quello che contraddistinse la mia esistenza: la fede nel progresso, nella libertà e nella ragione. Oggi vedo un Governo che non indica agli italiani alcun percorso di sviluppo da perseguire, un Ministero privo di fiducia nelle capacità individuali dei connazionali, uno Stato che vuole fare tutto umiliando l’iniziativa privata, una classe dirigente in parte catapultata in un oscurantismo della ragione che mette in dubbio persino le principali acquisizioni scientifiche. E vedo milioni di italiani proni davanti a tutto questo. Io vissi l’euforia del progresso, della rivoluzione industriale, della cultura illuminista. Combattei e lottai insieme ad una classe dirigente che si assunse la responsabilità di affrontare numerose e difficili sfide. Vuole che possa gioire di quello che vedo adesso?
T: Siamo spacciati?
C: Senza fede nel progresso, nella libertà e nella ragione, non ne verremo fuori. E sappiano i nostri governanti attuali che come la popolarità acquisita per mezzo del sangue sparisce prima che il sangue stesso abbia il tempo di seccare, allo stesso modo quella acquisita grazie a promesse irrealizzabili e all’odio sociale andrà via prima che si possa fornire qualsiasi giustificazione ai propri fallimenti.
da ilFoglio.it