L’economista che ha difeso il mercato contro le ingerenze dei pianificatori
Inizio primavera di 75 anni fa. Nel 1944 la guerra infuria sul fronte dell’Europa orientale, nel Pacifico e in Italia, mentre la Germania è sottoposta a duri bombardamenti. Nonostante questi tragici eventi, la casa editrice Routledge pubblica un libro di teoria politica che sarà destinato a contribuire a cambiare la storia, The Road to Serfdom (in italiano La strada della schiavitù), di Friedrich von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974 e uno dei più importanti filosofi politici del XX secolo.
L’economista austriaco era emigrato in Inghilterra nel 1931 e dopo l’Anschluss dell’Austria da parte della Germania hitleriana, disgustato dalla presa di potere nazista nella sua patria, diventò cittadino britannico. Hayek era sorpreso dal fatto che molti intellettuali e politici dell’epoca, nonostante la loro opposizione al totalitarismo, riponessero invece una fiducia crescente nella pianificazione economica e in particolare in quella sorta di programmazione benigna chiamata socialismo democratico che, pur sacrificando la libertà economica, avrebbe preservato la democrazia.
Fu proprio nel mezzo del conflitto mondiale, quando si levavano le voci di chi affermava che ciò che andava bene in guerra (il controllo governativo delle attività economiche) sarebbe andato bene anche in pace, che il filosofo decise di scrivere una vigorosa confutazione di questo atteggiamento intellettuale e nacque così The Road to Serfdom. Il libro spiega molto bene come la libertà economica sia un prerequisito di quella politica, perché se un grande pianificatore controllasse i mezzi di produzione e scegliesse cosa fabbricare e in quale quantità, ciascun individuo ne diverrebbe immediatamente prigioniero, né sarebbe possibile esercitare gli altri diritti democratici quali la libertà di stampa e il dissenso, a rischio dell’emarginazione o peggio.
Alcuni passaggi, poi, sono di grandissima attualità, se non addirittura profetici. Ad esempio, quando il filosofo descrive in termini crudi (che oggi sarebbero politicamente scorrettissimi) la composizione sociale dei partiti totalitari (comunisti e nazifascisti sono per lui figli della stessa matrice: Mussolini, Quisling e Laval erano socialisti in gioventù), fa venire in mente fin troppo ovvie assonanze con i populisti odierni.
Più alta l’educazione e l’intelligenza degli individui, scrive Hayek, più differenziate sono le loro visioni e preferenze. Se vogliamo trovare uniformità di vedute dobbiamo scendere negli strati dove gli standard morali e intellettuali sono più bassi e gli istinti più primitivi prevalgono. Questo non significa che la maggioranza di persone abbia bassi standard morali, ma che quando sono bassi in un gruppo di popolazione quest’ultimo ha valori uniformi. Siccome tale raggruppamento non è grande abbastanza, deve però convertire i più docili e sempliciotti, che non hanno forti convinzioni proprie ma sono pronti ad accettare un sistema di valori bell’e pronto che venga loro martellato nelle orecchie abbastanza rumorosamente e frequentemente (le fake news e la forza dei social network non avrebbero sorpreso Hayek). Le emozioni di queste persone sono facili da solleticare ed esse diventa- no così i sostenitori dei partiti totalitari.
Infine, il leader populista deve fare appello alle comuni umane debolezze. È più semplice per la gente accordarsi su un programma negativo – l’odio del nemico o del diverso, l’invidia verso chi sta meglio – che su ogni obiettivo in positivo. Il contrasto tra «noi» (il popolo) e «loro» (allora ebrei o kulaki, ora la casta, le banche, gli immigrati, i burocrati europei, Soros, i corrotti) è sempre l’arma usata dagli ammaliatori delle masse e lascia al leader grande libertà nel cambiare in continuazione il programma in positivo. Un altro aspetto che spesso troviamo ancora oggi, l’insofferenza verso le regole «formali», i tribunali, le «pastoie», che vengono superati con atti (anche normativi) di volta in volta dannunziani o patetici è descritto con precisione da Hayek. Si tratta dell’ostilità verso «the rule of the law», lo Stato di diritto. Infatti la libertà degli individui si basa sul fatto che essi possano contare sulla stabilità delle leggi e sulla loro applicazione senza discriminazioni: il governo non può a suo piacimento violare le norme che ne regolano i comportamento. Questo contesto contrasta con le necessità dello Stato pianificatore che ha bisogno di avere mano libera nel decidere come allocare le risorse.
Ecco che il potere diventa arbitrario e si assiste a una bulimia legislativa che distrugge ogni certezza. Più il governo pianifica, più diventa difficile per l’individuo programmare la propria vita. Se noi guardiamo alla nostra meno tragica epoca, i provvedimenti fiscali e assistenziali pensati ad hoc per favorire l’una o l’altra categoria; il continuo cambiamento di esenzioni, benefici, sovrattasse, età pensionabile; la violazione dei principii di uguaglianza, della tassazione in base alla capacità contributiva e di irretroattività, nonché la vaghezza del dettato normativo, sono tutti pietre miliari di quella strada verso la servitù contro cui Hayek scrisse il suo libro.
È un’opera classica perché può essere letta oggi con lo stesso interesse di 75 anni fa: purtroppo anche la mentalità collettivista in essa denunciata sembra non invecchiare mai.
La Stampa, pag. 24 15 Giugno 2019