«Vorrei politici strapagati però che lavorino bene».

«Vorrei politici strapagati però che lavorino bene».

Si alza dalla poltrona, si avvicina a un tavolo massiccio, afferra un porta-foto e me lo mostra. «È l’altarino. Ci sono tutte le tessere del mio cursus politico. La prima, quella del 1972, porta la firma del segretario Giovanni Malagodi, gigante del Partito liberale». Giuseppe Benedetto, 61 anni, avvocato siciliano, da qualche mese è il presidente della Fondazione Luigi Einaudi. Uno dei templi laici della tradizione liberale italiana. L’intervista si svolge nel suo studio legale, a pochi passi dal Cupolone. Ha un entusiasmo non frenabile per il nuovo ruolo. Elenca le doti del sito web della Fondazione, distribuisce sul tavolo brochure e articoli sparsi, srotola i nomi di prof e di alunni della Scuola di liberalismo: «Mario Monti, Beatrice Lorenzin, Nicola Porro…».

Benedetto è entrato in una delle ultime segreterie del Pli con l’incarico di responsabile per gli Enti Locali, ed è un passionale nostalgico della Prima Repubblica. Ripete più volte di non gradire l’invadenza della magistratura. Quando gli chiedo come ha vissuto la stagione di Mani Pulite e se ha condiviso i guai giudiziari della sua generazione politica, replica quasi con orgoglio: «Ventuno avvisi di garanzia. E per ventuno volte sono stato assolto, archiviato». Gli ricordo un convegno, a cui partecipò anche Giorgio Napolitano, in cui ci si chiedeva se ormai in Italia ci possiamo dire tutti liberali.

Caduti i muri, rimescolate le carte delle ideologie e dell’appartenenza siamo tutti liberali?

«No. Per molti anni, sebbene i risultati elettorali del Pli non fossero eccezionali, in Italia c’è stata un’area economico-imprenditoriale e di professionisti sinceramente legata al liberalismo economico e culturale. Ora il termine liberale è usato spesso a sproposito. C’è chi lo ha utilizzato persino per attaccare l’Ue e difendere l’aliquota fiscale che l’Irlanda ha generosamente fissato alla Apple: lo 0,005%!».

È il mercato, baby.

«Il mercato liberale consente all’Irlanda di fissare al 12,5% l’aliquota fiscale per le imprese che lavorano sul territorio irlandese e di fare concorrenza trasparente agli altri Paesi europei. Ma la “micro-tassa Apple” è una distorsione del mercato. Lo è anche il 70% di tasse pagate dai liberi professionisti italiani. Da noi lo Stato si è fatto vessatore».

Fissiamo un’aliquota liberale.

«Sopra il 33% le tasse entrano nel terreno minato dell’immoralità. Credo che Renzi si giocherà la permanenza a Palazzo Chigi proprio sulle aliquote lrpef».

Renzi è un premier liberale?

«Mi piace come ha ridimensionato il ruolo dei sindacati, ma insomma, siamo lontani da quella definizione. Liberali erano, per esempio, i governi con De Gasperi del dopoguerra».

De Gasperi era democristiano. E nei suoi primi governi c’erano anche i comunisti Togliatti e Sullo.

«È vero. Ma nel ’47 c’era lo stesso Einaudi al Bilancio e alla vice-presidenza del Consiglio. Negli ultimi anni, comunque, mi è toccato rivedere il vecchio adagio sul non morire democristiani».

Il presidente della Fondazione Einaudi vuole morire democristiano? «No, ma rimpiango tutta una classe dirigente che non c’è più».

È la classe dirigente spazzata via da Tangentopoli.

«Già. La mala gestio della cosa pubblica, allora, era finalizzata al finanziamento della politica, ora serve a ingrossare le tasche dei sin-goli».

Dopo la stagione di Mani Pulite è arrivato Silvio Berlusconi che ha provato a edificare un partito liberale di massa.

«Il partito liberale di massa è un’idiozia, Molti sinceri liberali, come Lucio Colletti, Alfredo Biondi, Antonio Martino, Piero Melograni, Mimmo Contestabile… hanno aderito a quel progetto. Ma non credo sia un caso che abbiano perso rilevanza e peso politico nel giro di pochi anni».

Lei ha avuto la tentazione di aderire a Forza Italia?

«No, ho lasciato la politica nel 1995. E credo che dal punto di vista di un liberale Berlusconi abbia fatto un errore imperdonabile».

Quale?

«Con le maggioranze che ha avuto, anche molto solide, non ha mai realizzato la separazione delle carriere dei magistrati».

Qui è l’avvocato che parla, non il liberale.

«È l’avvocato liberale o il liberale avvocato, non distinguo».

Pensavo che citasse la mancata promessa di abbattere le tasse.

«Una sana separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante è alla base delle regole del gioco liberale».

Non esageri.

«In Italia le parti in causa non sono equilibrate. La commistione tra i pm e i giudici è tangibile appena si entra nell’aula di un tribunale. Non mi risulta che nelle altre democrazie occidentali ci sia nulla di simile. Aggiungo: la nostra è diventata una repubblica panpenalistica dove si confonde il peccato con il reato. Quello che sta succedendo a Roma con la giunta Raggi è figlio di questa stortura».

Virginia Raggi fa parte di un Movimento, il M5S, in cui la legalità è un elemento fondante: «Onestà, onestà».

«Quindi che cosa dovremmo fare? Scendere in piazza con í forconi e chiedere alla magistratura di vendicarci perché un assessore ha ricevuto un avviso di garanzia? La Raggi è stata eletta dai romani e dovrebbero essere loro a giudicarla per come amministra. Ma ormai si preferisce procedere con le analisi del sangue fatte dalle Procure. Benedetto Croce parlava della “petulante richiesta che si fa della one-stà nella vita politica”».

Croce diceva anche che l’uomo dotato di genio politico si sarebbe fatto corrompere al massimo nella sfera privata, ma non in quel-la pubblica, perché quella è la sua passione e la sua gloria.

«Se io cerco un medico per mio figlio, lo cerco bravo, se poi è onesto, meglio. Lo stesso per l’ingegnere a cui far costruire la mia casa. Ricomincerei a selezionare politici capaci».

Purtroppo negli ultimi anni molti politici oltre che disonesti si sono rivelati spesso poco capaci.

«Non mi pare un buon motivo per scegliere la classe dirigente basandomi solo sull’onestà. Il principio della massaia onesta promossa a ministro della Famiglia non mi apparterrà mai. E nemmeno quello mitico sui tagli ai costi della politica. Vorrei politici strapagati ma che facciano bene il loro lavoro. Anche perché tagliando gli stipendi ed eliminando auto blu il debito pubblico non viene nemmeno scalfito».

La ricetta che soffierebbe nell’orecchio del ministro Padoan per tagliare il debito?

«Bisogna intervenire drasticamente sulle municipalizzate e sulle spese gonfiate delle Regioni».

Oggi chi dovrebbe votare un liberale?

«Io non voto da vent’anni».

Berlusconi, che in passato ha accolto molti liberali, ora sembra puntare su Stefano Parisi. Se rinascesse il centrodestra…

«Non credo nella contrapposizione centrodestra-centrosinistra. La considero un’anomalia italiana. E comunque non vedo che cosa possa avere a che fare un liberale con uno schieramento in cui ci sono anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni».

La Fondazione Einaudi circa un anno fa stava per essere “salvata” proprio da Berlusconi.

«Berlusconi organizzò una cordata di imprenditori».

Si aprì il cielo del liberalismo. Il leader del Pii Valerio Zanone e l’erede Roberto Einaudi dissero che piuttosto sarebbe stato meglio chiudere. I giornali titolarono sul Cavaliere nero che cercava di profanare il tempio sacro della cultura liberale.

«Mario Lupo, ex presidente della Fondazione, mi chiese se volevo partecipare alla stessa cordata. Risposi no. Poi, sfumata l’ipotesi Berlusconi, accettò di portare in Assemblea una mia proposta. Fu un’operazione complessa anche perché inizialmente tutti i grandi azionisti, le banche e lo stesso Roberto Einaudi, erano contrari. Con me c’è un gruppo di piccoli imprenditori. Ma come si dice: l’entusiasmo muove le montagne. E un luogo alto della cultura destinato a morire ora sta rinascendo. È anche molto frequentato da ragazzi».

A cena col nemico?

«Con Massimo D’Alema».

Ha un clan di amici?

«Essendo siciliano dò al termine amicizia una particolare importanza: cito Davide Giacalone, che stimo e che conosco da quando io ero un giovane liberale e lui un giovane repubblicano».

Qual è la causa legale di cui va più fiero?

«Una condanna a Marco Travaglio per diffamazione nei confronti di Fabrizio Del Noce».

C’è stata una sentenza della Cassazione che ha prosciolto Travaglio e costretto Del Noce a pagare le spese legali.

«Parlo di un’altra causa. C’è stato il primo grado. In attesa dell’appello è maturata la prescrizione, vediamo se rinuncia».

Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?

«Sposare mia moglie Antonella, il 7 aprile 1980».

L’errore?

«Non essere stato conseguente rispetto a un’intuizione che avevo avuto nel 1990».

Quale intuizione?

«Avevo capito che il sistema dei partiti sarebbe crollato. Avrei dovuto lasciare la politique-politicienne».

Per evitare i guai con la giustizia?

«Gli avvisi di garanzia passano, la sensazione di fallimento no. All’inizio degli anni Novanta si è chiuso malamente un ciclo. Lei non ha idea di quanto fosse bello ciò che poi è stato criminalizzato: l’appartenenza a un partito e alle sue idee».

Che cosa guarda in tv?

«Le partite della Juventus. Tutte».

Il film preferito?

«Frankenstein Junior con Gene Wilder».

La canzone?

«Bocca di rosa di Fabrizio De André».

Il libro che darebbe in mano a un adolescente per farlo appassionare al liberalismo?

«Difendere l’indifendibile di Walter Block».

Il romanzo?

«Quello italiano più letto al mondo: Il Gattopardo. Lo sa perché Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha dato il titolo nobiliare di “Principe di Salina” al protagonista del suo capolavoro?».

No.

«Perché nella stanza di Villa Piccolo, dove scriveva, c’è una finestra che incornicia l’isola eoliana».

Quanto costa un pacco di pasta?

«Circa un euro? Ammetto: non ho mai fatto la spesa».

Conosce i confini della Libia?

«No».

Tunisia, Algeria, Egitto… L’articolo della Costituzione che le piace meno?

«Il numero uno. La nostra costituzione ha radici nobili nei tre grandi filoni di pensiero: liberale, cattolico, marxista. Dire che siamo una repubblica fondata sul lavoro sbilancia gli equilibri».

La parola della Costituzione che vorrebbe cambiare?

«Ci sono molte parole, messe al posto giusto. Ma trovo che l’articolo 70 riformato…»

…. è la versione renziana delle funzioni legislative…

«Lo trovo imbarazzante. Non si può riscrivere in modo così confuso un articolo della Costituzione».

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