L’attività del governo non ha rallentato e non si è affievolita. Tale sensazione è diffusa, ma è sbagliata e contiene un errore che ne compromette la correzione. Su tutto quello che è di esclusiva competenza governativa le cose potrebbero procedere meglio e più velocemente, ma vanno bene e con accettabile speditezza. La musica cambia quando entra in scena il Parlamento. E più si andrà avanti più entrerà in scena.
Qui le riforme rallentano e si snaturano. Materie come il fisco e la concorrenza cominciano a somigliare al grosso pesce pescato dal Vecchio nel mare di Hemingway: prima di toccare la riva resta solo la lisca. In altre materie, come la giustizia, s’è scelto in partenza di puntare all’uovo oggi, rinunciando alla gallina domani. Non che l’uovo sia disprezzabile, ma anche quello finisce fritto e poi sparisce. Il Parlamento non è mai stato un luogo comodo per i governi, né deve esserlo, anzi, ma per il governo Draghi la cosa è ancora più complicata, essendo un governo “con” i partiti e non “dei” partiti.
Forse qualcuno sperava che proprio l’estraneità di Draghi (e di Franco) al gioco dei partiti gli consentisse di prenderli per un orecchio e portarli dove necessario. Ma una tale speranza si basa su un concetto distorto e velenoso del potere, lo stesso che genera patologie da “pieni poteri”, perché nelle democrazie e nei sistemi parlamentari il potere si esercita con il consenso: prima degli elettori e poi degli eletti. Se potere e consenso divorziano la democrazia soffoca. Se, invece, copulano di continuo la democrazia annega nella demagogia. Quindi no, attendersi il governo dell’uomo forte porta dove portò l’uomo della provvidenza: alla perdizione.
Epperò una cosa è il consenso necessario a cambiare le cose, altra il rinunciare a cambiarle per tenersi il consenso. Che è poi la ragione per cui, da settimane, avvertiamo che il tempo scorre, la legislatura ha meno di un anno davanti, sulle cose necessarie si deve accelerare. E sì, speriamo sempre che Draghi non si limiti a non mollare, ma qualche volta li molli. Più o meno, mi pare che anche il professor Carlo Cottarelli ragioni in questo modo. Ma ha fatto un passo in più: meglio andare a votare subito, ha scritto, piuttosto che tenersi lo strazio del nulla fino allo sfinimento. Mi piacerebbe concordare, se non fosse che attorno al voto vedo il vuoto.
Perché le cose rallentano, in Parlamento, fin quasi a fermarsi? Perché i partiti che approvano le cose in Consiglio dei ministri sono gli stessi che poi le smontano in Parlamento? Si risponde: perché sono già in campagna elettorale, meglio accorciarla. Ma sono sempre in campagna elettorale. È la sola cosa per cui si sentono la vocazione. E non può che essere così perché non sono partiti diversi con politiche diverse in cerca di consensi per realizzarle, ma politici senza idee politiche che cercano i consensi per continuare a fare politica. Tanto è vero che restano appiccicati alla falsa contrapposizione fra coalizioni, che appiccicate non ci restano manco con lo sputo. Sono divise in tutto, dalla politica estera alle questioni interne, ma restano falsamente unite per continuare il falso balletto. Certo che andremo a votare, questo vogliono le regole, ma a che ci servirà sapere quale falso prevarrà? In ogni caso non sarà risolutivo.
Accorciando la campagna elettorale non accorciamo lo strazio, perché si riprenderà la mattina dopo e i falsi vincitori si logoreranno in fretta. A quel punto qualcuno dirà: torniamo al voto. Altri proveranno a fare un governo che prescinda dai propagandisti a tre palle un soldo, senza più neanche Draghi.
Nuoce alla democrazia credere che il governo possa prescindere dal consenso, come nuoce supporre che le elezioni siano inutili. Ma nuoce anche credere che la democrazia consista solo nel votare e rivotare. Oggi è prezioso garantire la collocazione atlantista ed europeista, che all’inizio della legislatura, dopo il voto, erano sfregiate. Poi sarà il caso di porsi la questione da elettori: è vero che non posso votare quello che non c’è, ma è pure vero che quello che c’è lo abbiamo voluto noi. E desta una certa repugnanza. Ma è da noi che si dovrebbe cominciare, incenerendo vizi diffusi.
La Ragione